«L’innovazione non esiste senza cultura della diversità e senza politiche di inclusione. Il business si basa sull’innovazione e l’innovazione si basa sulla ricchezza della diversità. In fondo se sei in grado di diversificare un’organizzazione, aumenti il tasso di innovazione». Non usa mezzi termini Francesca Vecchioni per evidenziare la forza dell’organizzazione che abbraccia tutti. È chiara, diretta, appassionata.
Da anni segue l’evoluzione di questi temi nella cultura di impresa, nella vita reale e in quella virtuale fatta di narrazioni social di ogni tipo. La sua è una riflessione che vale per i media editoriali, per le grandi imprese e per le startup emergenti. Vecchioni torna stasera a Milano con i Diversity Media Awards, riconoscimenti che premiano i personaggi e i contenuti mediali che si sono distinti nel corso dell’anno precedente per una rappresentazione valorizzante e inclusiva delle persone. L’iniziativa è ideata e promossa dalla Fondazione Diversity, no-profit fondata e presieduta proprio da Vecchioni.
Oggi aumenta la complessità: quando si parla di DEI – ossia Diversity Equity & Inclusion – ci si riferisce a tutto lo spettro della diversità e dell’equità. «Il punto centrale è che se non porti all’interno dell’organizzazione questa diversità non ascolti veramente il mercato e non cresci. Un’azienda omogenea può avere anche buone intuizioni, ma non riesce a rappresentare il mercato perché per ascoltarlo al meglio devi riuscire a rappresentarlo. Oggi le aziende fanno fatica a intercettare talenti da portare a bordo e soprattutto sono ancora indietro nel modo in cui riescono a creare accessibilità nel momento del recruiting.
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Insomma, a parole si persegue l’intento di essere inclusivi, ma poi si fa fatica a diversificare gli ambienti di lavoro», precisa Vecchioni. Ma in realtà puntare su ambienti di lavoro inclusivi conviene soprattutto alle imprese. Oggi 3 consumatori su 4 scelgono con convinzione realtà che parlano di inclusione, mentre 9 su10 non consiglierebbero quelle marche percepite come non inclusive. Ma c’è di più: 6 persone su 10 non accettano più quelle aziende neutrali o che non prendono posizione. Un passaparola che determina un differenziale della crescita dei ricavi a favore dei brand ritenuti più inclusivi rispetto a quelli non inclusivi. È emerso a inizio 2024 dalla ricerca Diversity Brand Index 2024.
“Un’azienda omogenea può avere anche buone intuizioni, ma non riesce a rappresentare il mercato perché per ascoltarlo al meglio devi riuscire a rappresentarlo”
La diversità riguarda tutti
«Esistono certamente aziende inclusive e altre meno, ma il passaggio è solo un tema di consapevolezza, di cultura, di leadership. Insomma, ogni azienda può imparare a fare la sua parte. Una persona con disabilità o una persona trans o una persona nera alimenta una produzione innovativa dentro un’azienda perché è messa nella condizione di lavorare al meglio assieme agli altri. L’Italia oggi ha differenti livelli di maturità e si presenta con aziende molto diverse tra loro. Ma ogni realtà può fare il passo e migliorare su questo fronte. Penso alle grandi imprese, ma anche al tessuto produttivo nostrano composto da moltissime Pmi e ovviamente penso alle startup. Spesso i datori di lavoro e i manager si trincerano dietro un alibi, ossia avvio questo percorso quando trovo le persone e l’obiezione è che non ci sono persone. Ma è un ragionamento che non regge. La verità è che c’è un problema di consapevolezza, di formazione e di cultura», dice Vecchioni. Ecco allora che bisogna uscire da stereotipi e luoghi comuni per far crescere la diversità e consentire a ciascuno – nessuno escluso – di esprimersi al meglio.
“Spesso i datori di lavoro e i manager si trincerano dietro un alibi, ossia avvio questo percorso quando trovo le persone e l’obiezione è che non ci sono persone. Ma la verità è che c’è un problema di consapevolezza”
Tutto passa dall’autenticità
In questo percorso l’elemento centrale è l’autenticità. Perché in fondo – ci dice senza troppi giri di parole Francesca Vecchioni – se il tuo approccio è finto o stereotipo, prima o poi i nodi vengono al pettine. «Ancora oggi le aziende si pongono sul mercato in maniera omogenea e puntando su immagini stereotipate. Ma l’autenticità è essenziale. Dobbiamo riuscire a raccontare un mondo autenticamente inclusivo e non fintamente costruito la diversità negli ambienti di lavoro. Tutto ciò passa dall’ingresso delle persone con gruppi sotto-rappresentati dentro le organizzazioni. La chiave è mettersi in ascolto e far parlare le persone, che diventano ambasciatrici del proprio luogo di lavoro. La narrazione è rilevante perché le parole pesano. Così come nei media la rappresentano identifica. Il racconto mostra le persone, le definisce. Ecco allora che si deve scrivere, postare, parlare in modo diverso. Bisogna avere cura della crescita reale delle persone. È certamente un tema di fiducia, ma anche di narrazione. Le aziende che vogliono davvero innovare e crescere possono farlo oggi solo cambiando approccio. Serve un’inclusione reale e concreta, aperta a tutte le categorie», dice Vecchioni.