Non esiste posto più controllato di Gaza: satelliti, droni e hacker la sorvegliano. Ma tutto questo non è bastato. Hamas per colpire ha sfruttato la certezza della superiorità tecnologica dell’avversario. Ce lo spiega nel nostro longform domenicale Loretta Napoleoni, economista di fama internazionale, saggista ed esperta di terrorismo
Il terrorismo presuppone una guerra asimmetrica, ciò significa che ovunque ci siano delle posizioni di vantaggio queste verranno sfruttate in pieno dai gruppi armati. Ed è quello che ha fatto Hamas, organizzazione definita terrorista dalla maggior parte della comunità internazionale, ma che controlla politicamente la striscia di Gaza, una lingua di terra semidesertica grande come la metà di New York dove vivono poco più di 2 milioni di abitanti. Questa volta però invece di utilizzare bombe suicide contro gli israeliani, Hamas ha fatto leva sulla superiorità tecnologica del nemico trasformandola in un’arma nuova ed inaspettata contro Israele.
Attacco al cuore della startup nation
La prima leva asimmetria è stata usata all’interno del sistema di sorveglianza e deterrenza dell’intelligence israeliana. Israele è una delle nazioni più high tech del pianeta. A giugno, Intel ha annunciato che investirà 25 miliardi di dollari per costruire entro il 2027 una nuova fabbrica ad Israele. A marzo Tel Aviv è stata classificata quinta città al mondo per il numero di startup da un miliardo di dollari, i cosiddetti unicorni. La tecnologia della sicurezza israeliana è seconda a nessuno. Israele la esporta in tutto il mondo. E la striscia di Gaza e la West Bank sono i suoi laboratori a cielo aperto dove tutti i sistemi di controllo vengono testati, sperimentati e applicati.
Forse non esiste un pezzo di terra più controllato di Gaza. Dai satelliti alle intercettazioni telefoniche, ai droni fino agli hacker, l’intelligence israeliana osserva in tempo reale la vita che scorre in questa striscia. Hamas ha sfruttato la certezza della superiorità tecnologica ed ha agito low-tech. Invisibile, ha dato l’impressione di non essere operativa. Ed ecco alcune regole che ha seguito. Compartimentalizzazione: le cellule lavoravano da sole ed indipendentemente da tutte le altre, quelle che preparavano i missili non sapevano chi faceva parte dei commando che dovevano neutralizzare i droni; comunicazioni solo in persona, niente cellulari, smartphone, computer o telefoni; segretezza assoluta all’interno della comunità di Gaza. Questo ha impedito alla rete di informatori che Israele ha tra la popolazione di attivarsi. De facto per mesi se non anni Hamas ha volato sotto il radar della sicurezza israeliano perché low-tech.
I punti ciechi dell’Iron Dome
La seconda leva è stata l’open source e il reverse engineering. In fondo i sistemi di sicurezza e di deterrenza di Israele sono conosciuti, vuoi perché la nazione è un esportatore netto di tecnologia, vuoi perché tali sistemi sono stati usati altrove, in Siria, in Afghanistan. All’interno della rete del terrorismo islamico le informazioni circolano bene, ci si scambia scoperte anche e soprattutto sul funzionamento delle armi moderne. Hamas sapeva che la Iron Dome non avrebbe retto al lancio simultaneo di centinaia di missili, conosceva l’intervallo necessario affinché si alzassero i droni per proteggere il muro, aveva previsto i tempi tecnologici di risposta della difesa ed ha bruciato tutti sul tempo. Così un muro di 1 miliardo di dollari, la barriera protettiva israeliana, è stato aperto come una scatola di tonno o scavalcato da jihadisti su rudimentali macchine volanti. La certezza della superiorità tecnologica del muro con il suo network di droni, telecamere, cellule fotoelettriche, è alla radice del falso senso di protezione di Israele che ha portato l’esercito a concentrarsi nella West Bank per proteggere i nuovi coloni e ad abbandonare il pattugliamento di Gaza. In altre parole, l’intelligence era sicura che la tecnologia non poteva mai essere battuta. Terza leva gli armamenti. È questo forse l’aspetto più sconcertante dell’attacco e del conflitto attuale. Come ha fatto Hamas all’interno della striscia di Gaza a costruire un arsenale di missili che fa invidia a nazioni come il Libano o la Giordania? Le difficoltà sono quasi insormontabili dal momento che Gaza è come una prigione a cielo aperto senza la moderna tecnologia che permetterebbe digitalmente di allargarne o anche scavalcare i confini. A Gaza il sistema di telefonia è 2G, l’elettricità è intermittente, la striscia è soggetta al blocco commerciale da parte dei paesi limitrofi, Israele ed Egitto.
Hamas è riuscita ad armarsi in queste circostanze contrabbandando i pezzi necessari via mare e attraverso i tunnel sotterranei ma anche attraverso i valichi nel muro. Ma una buona parte del materiale, in particolare i tubi, viene da Gaza: sono stati dissotterrati e usati per costruire i cilindri dei missili. La tecnologia, quella più avanzata usata per assemblare il nuovo sistema dei missili Rajun – che pare sia difficile individuare per la Iron Dome – proviene da altri gruppi armati o da nazioni loro simpatizzanti come l’Iran. Dall’Afganistan, invece, sono arrivate le armi americane, lasciate dopo il ritiro delle truppe, armi che pare Hamas abbia usato nel primo attacco contro Israele. A prescindere dall’abilità nel contrabbandare, Hamas ha dato prova di conoscere a menadito la tecnologia bellica, quella di attacco e di difesa ma anche di costruzione delle armi. E questo Israele ed i suoi alleati non potevano immaginarlo perché la tecnologia è nelle mani di un ristretto gruppo di persone, tra cui le società high-tech israeliane. Anche questo è un senso di sicurezza falso, tutto occidentale, la tecnologia è parte del reale ed in quanto tale è accessibile vuoi direttamente o indirettamente, e.g. con il reverse engineering. L’epilogo di questa triste storia arriverà dall’invasione di terra, quello è un terreno dove il conflitto asimmetrico si rovescerà perché è nella guerriglia casa per casa che Hamas si trova in posizione di vantaggio.