«L’Italia ha ancora un potenziale inespresso, dobbiamo creare un ecosistema più solido con politiche a favore di startup e scaleup. Dobbiamo fare in Europa ciò che all’industria italiana riesce meglio, ovvero trovare le nostre nicchie in un mondo di giganti». Riccardo Di Stefano, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, completa il nostro percorso editoriale che ci ha accompagnato fino alla vigilia delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno. Intervistando stakeholder ed esperti abbiamo chiesto loro quali sono gli obiettivi per l’Ue del futuro, alle prese con sfide di carattere normativo e tecnologico. A pochi giorni dall’elezione di Emanuele Orsini a Presidente di Confindustria, abbiamo fatto il punto sugli obiettivi dell’associazione degli industriali.
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L’intervista a Riccardo Di Stefano, presidente di Confindustria Giovani
Per le PMI e startup il 2024 è un anno di normalizzazione dopo le difficoltà del 2023, tra incertezza e inflazione?
Negli ultimi 15 anni in Italia il numero di imprese si è ridotto di quasi un quarto, 1 impresa su 4. Parliamo in particolare delle micro e delle piccole. In compenso cresce il numero delle startup e delle PMI innovative che sono aumentate di oltre il 30% nel 2023 rispetto al 2019. Per le imprenditrici e gli imprenditori di prima generazione, l’accesso a risorse per avviare un’azienda è cruciale. Per questo, come Movimento dei Giovani Imprenditori, abbiamo chiesto e ottenuto dal Governo di agire per promuovere l’accesso degli imprenditori under40 a strumenti di finanza alternativa, in particolare attraverso operazioni di basket bond. L’innovazione è il motore della crescita.
C’è un tema legato agli investimenti, che potrebbero far crescere l’ecosistema
Sul mercato abbiamo tanti nuovi player innovativi, startup, spinoff aziendali e universitari, che possono giocare un ruolo di veri e propri fornitori di innovazioni. L’Italia ha ancora un potenziale inespresso, dobbiamo creare un ecosistema più solido con politiche a favore di startup e scaleup: attraverso partnership pubblico-private tra scuola, ricerca e impresa; attraverso lo snellimento delle procedure di avviamento di nuove imprese che sono spesso troppo complesse e un freno alle nuove idee. Per quanto riguarda gli investimenti: servono misure fiscali incentivanti per le aziende che vogliono acquisire startup o PMI innovative al fine di tenere l’innovazione nel nostro Paese; serve anche aumentare la capacità d’investimento dei Fondi, incentivando investimenti da parte di Compagnie assicurative, Casse di previdenza, Fondi pensione. Insomma, c’è tanto da fare. Per questo sono molto felice della delega da poco ricevuta da Confindustria per l’Education e l’Open Innovation: nei prossimi 4 anni sarà un mio impegno costante continuare a lavorare su questi temi, aprendo nuove opportunità per i giovani e stimolando tutti gli attori coinvolti a dare il massimo.
In vista delle Europee la vostra associazione cosa sta chiedendo ai candidati al Parlamento? Ci sono punti particolari nella vostra agenda che andrebbero affrontati con urgenza?
Chiarezza e responsabilità. Chiarezza nello spiegare agli elettori cosa vogliono cambiare di questa Europa e, soprattutto come. Non basta dire che va rivista la governance, il Green Deal o che vanno aumentati gli investimenti per rafforzare l’industria europea. Devono spiegarci come, perché fa tutta la differenza. Dove intendono trovare le risorse, su quali capitoli vogliono concentrarsi e come pensano di costruire il consenso necessario con gli altri Stati membri. Manca ancora qualche giorno al voto, speriamo non si sprechi l’occasione per fare un discorso di verità con gli elettori.
Sul fronte AI qual è la vostra posizione? Pensate che le aziende italiane siano attrezzate per la transizione?
L’intelligenza artificiale non è una singola tecnologia, ma una filiera digitale e industriale. Una filiera che in Europa ha molte debolezze, quasi in ogni punto della supply chain. I problemi europei sono essenzialmente di tre ordini: investimenti, tempo, frammentazione. In Italia, a parte la doverosa riflessione etica, dobbiamo domandarci: cosa vogliamo essere in questa filiera? Produttori o moralizzatori? Per noi il nodo è l’utilizzo di dati per una AI a forte declinazione industriale. Con questi possiamo efficientare i processi e arricchire i nostri prodotti, proprio come facciamo col design. Anche i dati in possesso della Pubblica amministrazione sono pregiati.
Che obiettivo dovrebbe porsi l’Italia?
L’Italia dovrebbe porsi l’obiettivo di essere leader nell’utilizzo dei dati ed evitare che vengano usati da altri portando il vero valore fuori dal nostro Paese. Anche all’Italia, come all’Europa, servono investimenti davvero significativi sull’Intelligenza artificiale. Puntare su produzioni ad alto valore aggiunto, su questa come sulle altre catene del valore, è un passaggio cruciale che dobbiamo compiere come Sistema Paese. Dobbiamo farlo per restare competitivi, per creare posti di lavoro di qualità e ad alto reddito. Dobbiamo farlo anche per compensare gli effetti di un declino demografico che ci imporrà di fare di più mentre diventiamo sempre di meno. La sfida non è riportare indietro le produzioni a basso valore aggiunto. La sfida è dominare quelle di frontiera.
Quali strategie invece per l’Europa?
Investiamo in intelligenza artificiale 1 miliardo all’anno, poco. Occorre un fondo europeo per raccogliere investimenti pubblici e privati. Uno strumento finanziario e di incontro fra produttori e utilizzatori di tecnologie, ovvero Istituzioni, grandi industrie, PMI e startup. L’AI è una delle grandi battaglie del nostro tempo, perderla avrà conseguenze economiche, politiche e di sicurezza. L’Intelligenza artificiale pone anche sfide profonde dal punto di vista delle competenze. Il digital divide ne rallenta non solo la produzione ma anche l’uso. Per reagire, all’Europa serve tanto una formazione di scuola superiore omogenea, almeno per le materie base, quanto lauree compiutamente europee, come da progetto della Commissione che speriamo porti rapidamente a risultati concreti. Non capire e non saper usare la tecnologia rischia di aumentare la disoccupazione e le diseguaglianze. Le competenze servono anche alle Istituzioni e alle pubbliche amministrazioni. Una distanza troppo profonda fra pubblico e privato comporterà un grave freno alla crescita con servizi al cittadino e alle imprese sempre più inadeguati.
Tra USA e Cina esiste una terza via europea sul fronte tecnologia e innovazione?
Certo che esiste. L’Europa non può restare indietro, trasformandosi nel vaso di coccio fra i vasi di acciaio di Stati Uniti e Cina. Al contrario, deve diventare first mover nei settori cardine dell’innovazione. Per farlo deve cambiare corso e mentalità. Deve adottare strumenti nuovi per recuperare competitività. Cominciamo dalla politica industriale, che deve diventare compiutamente una competenza europea. Al centro ci sono le KET, le Tecnologie Abilitanti Chiave. Oltre a nuove filiere, queste richiederanno ristrutturazioni e riconversioni produttive, nuovi fornitori e nuove catene globali del valore in cui entrare. Non sarà una passeggiata ma ne varrà la pena perché, una volta consolidato il know how, le applicazioni potranno essere infinite. Dobbiamo fare in Europa ciò che all’industria italiana riesce meglio, ovvero trovare le nostre nicchie in un mondo di giganti. Nicchia che, però, non vuol dire affatto nanismo d’impresa. Dobbiamo, poi, puntare sulla neutralità tecnologica.
Sulla transizione ecologica le imprese hanno spesso criticato le tempistiche
Condividiamo gli obiettivi ambientali ma chiediamo di essere liberi di decidere come raggiungerli. Dobbiamo inoltre, costruire in Europa le filiere fondamentali per la sicurezza energetica e la transizione green. Turbine eoliche, pannelli solari, idrogeno verde, superando anche le resistenze al nucleare. Sono tutte energie pulite che potremmo produrci in casa nostra a costi competitivi. Poi ci sono le materie prime critiche. La svolta arriverà quando guadagneremo leadership tecnologica dove la strada non è già battuta dalle due super potenze. L’Europa deve diventare leader nell’utilizzo di materiali non contesi e largamente diffusi in natura, sostenibili e rigenerabili. Dandogli, quindi, un nuovo utilizzo. Infine, il salto tecnologico da fare richiede una enorme mole di investimenti, lo sappiamo. È impensabile che questo cambio d’epoca sia finanziato solo attraverso il canale bancario. Occorre favorire l’accesso delle imprese a fonti finanziarie alternative e a capitali pazienti. Completiamo, finalmente, la creazione del mercato unico dei capitali europeo. Semplicità delle regole, adeguata entità delle risorse, strumenti semplici e diretti, organicità e coerenza delle misure sono la strada da seguire. È in capo a tutti i candidati al Parlamento europeo la responsabilità di cambiare le cose. E ancora di più al Governo, che ci rappresenta nei tavoli dove vengono prese le decisioni più importanti.
Cosa suggerirebbe per un piano industriale europeo?
Energia, competitività e nuove regole sono i pilastri intorno a cui costruire una politica industriale europea. È positivo che finalmente se ne parli. Ma non basta. Bisogna anche agire, e in fretta. Una Europa deindustrializzata conterà sempre meno, e non possiamo permetterlo. Presidiare le catene di fornitura fondamentali e guadagnare posizioni nella parte alta delle catene del valore ci permetterà di mantenere il nostro ruolo nel mondo, e accrescerlo. Allo stesso tempo, ci garantirà il benessere e la sicurezza che questi anni di pace ci hanno assicurato.