A rischio diversi mestieri: dal contabile a chi oggi gestisce i rapporti con i clienti. Siamo ancora in tempo per evitare che sia la prima rivoluzione industriale che non porterà benessere
Storicamente, si parla di tre grandi rivoluzioni industriali: quella della macchina a vapore, quella del motore a scoppio e quella dell’energia nucleare, che alcuni fanno invece coincidere con Internet. Tutte sono accomunate da un fatto: le macchine hanno sostituito prima gli animali e poi l’uomo nel sistema produttivo, creando benessere e migliorando le condizioni di lavoro. Quella che stiamo vivendo, a detta di alcuni, potrebbe essere invece la prima rivoluzione ad aumentare la disoccupazione. Secondo uno studio presentato al World Economic Forum (WEF), in pochi anni, per la precisione entro il 2025, i robot ci sostituiranno in diversi campi: dalla gestione clienti alla contabilità, dalle attività industriali a quelle postali. E non esisteranno nemmeno più segretarie e segretari umani: sarà una intelligenza artificiale, che saltella su vari device (cellulare, computer, televisione di casa, tablet, orologio) a ricordarci gli appuntamenti e a fissarne per noi.
Detta in questi termini, la situazione sembra particolarmente fosca. E nemmeno le premesse del report della svizzera WEF rincuorano, visto che, secondo lo studio elvetico, entro sette anni il 52% delle attuali mansioni sarà in mano ai robot. Attualmente la percentuale si aggira attorno al 29%. Con l’affinarsi delle intelligenze artificiali alle macchine non sarà più comandato di fare semplici calcoli, ma persino di elaborare testi e seguire i clienti nel loro quotidiano rapporto con le aziende o con la pubblica amministrazione.
La quarta rivoluzione industriale, però, secondo gli analisti del WEF potrebbe creare 133 milioni di nuove mansioni, molte delle quali oggi nemmeno riusciamo a immaginare, contro i 75 milioni di ruoli destinati a soccombere. Qui allora la sfida è sociale oltre che culturale: tutto dipenderà dalle reti di sicurezza che gli Stati riusciranno a preparare per i lavoratori che resteranno a casa per colpa dei robot. Tutto dipenderà della stretta connessione tra welfare e imprese per creare corsi di aggiornamento che preparino persone non più giovanissime ai mestieri del futuro. Una riprogrammazione generazionale, insomma, cui dovrà prendere parte anche il sistema scolastico.
Già attualmente la scuola italiana risulta scollegata dal mondo del lavoro. Sono pochissimi gli atenei universitari che sfornano giovani predisposti all’inserimento in un mercato sempre più altamente specializzato. Il rischio, dunque, è che l’Italia si trovi inceppata su entrambi i fronti: su quello delle persone che escono dal mercato del lavoro e non hanno più modo di rientrarvi e sul versante, opposto, delle persone fresche di studi che debbono ancora inserirsi ma che non hanno le competenze ricercate. Se le cose non cambieranno, effettivamente potrebbero aumentare disoccupazione e malessere sociale. Ma non date la colpa ai robot.