Modelli ibridi nel post pandemia per 4 milioni e 380mila smart worker: con 2 giorni e mezzo da remoto risparmiati 1.450 euro all’anno per ogni lavoratore
Mentre sindacati, associazioni imprenditoriali e governo si avvicinano all’accordo di massima per la regolamentazione dello smart working entro la fine dell’anno, il report annuale del Politecnico di Milano ha fotografato il quadro attuale sul lavoro agile in Italia. Il primo dato emerso dallo studio è il calo degli smart worker, dovuto in primo luogo all’avanzamento della campagna vaccinale. Dai 5 milioni e 370mila milioni lavoratori in remoto del primo trimestre del 2021, si è passati, a fine settembre, a poco più di 4 milioni, mentre l’81% delle grandi imprese, il 67% delle Pa e il 53% delle Pmi hanno sviluppato progetti di smart working strutturati o informali.
Un nuovo aumento di lavoratori agili è comunque previsto al termine dello stato di emergenza dovuto alla pandemia, per l’appunto il prossimo 31 dicembre. Si dovrebbe trattare di una crescita degli smart worker dell’8%, vale a dire 4milioni e 380 mila persone. Di queste, oltre 2 milioni nelle grandi società, 970mila nelle microimprese, 700mila nelle PMI e solo 680mila nella Pa.
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“Sappiamo che lo smart working sarà utilizzato di più rispetto al passato”, ha dichiarato su Facebook il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. “Ma sappiamo anche che durante la pandemia è stato utilizzato molto anche per ragioni legate all’emergenza sanitaria. Siamo in una fase in cui si andrà a definire un nuovo equilibrio nell’utilizzo dello smart working“. Non a caso, il 40% delle grandi aziende ha definito un progetto di smart working a seguito dell’emergenza sanitaria, percentuale che raddoppia all’85% fra le Pa. In più, il 55% delle grandi imprese e il 25% delle pubbliche amministrazioni sta modificando i propri spazi di lavoro, per adattarli ai nuovi contesti.
Effetto positivo smart working, sì per l’89% delle grandi aziende nel post pandemia
Riprendendo i numeri del report 2020 dell’Osservatorio del Politecnico, è possibile fare un confronto fra quello che è stato il ricorso al lavoro agile nei mesi più duri della pandemia e quale potrebbe essere il suo utilizzo nella nuova normalità post-Covid. Risulta evidente la differenza di posizioni fra la continuità nell’impiego dello smart working da parte delle grandi società – il 97% del totale ne ha usufruito durante la fase più critica dell’epidemia e l’89% dichiara di confermare la modalità agile in futuro – e il parziale dietrofront delle Pa e delle piccole e medie imprese.
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Infatti, se il 94% delle pubbliche amministrazioni ha scelto il lavoro da remoto lo scorso anno, soltanto il 62% sta programmando l’introduzione definitiva del modello ibrido. Ancora più bassa la percentuale relativa allo smart working nelle Pmi: il 58% nel periodo critico della pandemia, che si ridurrà al 35% una volta superata l’emergenza.
“Le grandi imprese stanno sperimentando nuovi modelli di lavoro“, sottolinea Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Start Working. “Con la ricerca di nuovi equilibri fra presenza e distanza, capaci di cogliere i benefici potenziali di entrambe le modalità di lavoro. In molte organizzazioni, soprattutto Pmi e Pa, invece, si sta tornando prevalentemente al lavoro in presenza, a causa della mancanza di cultura basata sul raggiungimenti dei risultati. Un arretramento“, prosegue Corso, “che si scontra con le aspettative dei lavoratori e gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese”.
In base agli accordi già stabiliti o in procinto di essere ultimati, la maggior parte delle grandi società opteranno per un modello in cui sarà possibile lavorare a distanza in media tre giorni alla settimana, due nelle Pa. Non si tratta soltanto di una decisione sull’onda del cambiamento, ma una scelta dettata da innegabili effetti positivi. Secondo l’89% delle grandi imprese ha riscontrato un miglioramento dell’equilibrio tra vita privata e lavoro, parere condiviso dal 55% delle Pmi e dall’82% delle pubbliche amministrazioni. In crescita anche l’efficacia e l’efficienza del personale.
I cambiamenti favorevoli sono stati percepiti anche dai lavoratori, il 39% dei quali ha migliorato il cosiddetto work-life balance. Non solo: il 38% si sente più efficiente e il 35% più efficace al lavoro, specifica il report. Inoltre, un terzo delle persone intervistate dichiara che la modalità agile ha contribuito ad aumentare la fiducia fra manager e collaboratori e la comunicazione fra colleghi. “Ora è necessario costruire il futuro del lavoro sul vero smart working, che non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione“, commenta Corso. Il lavoro agile “spinge a un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e delle meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati”.
Non tutte rose e fiori
Su alcuni punti, tuttavia, i punti di vista di aziende e lavoratori non coincidono. È il caso proprio della comunicazione fra colleghi, peggiorata secondo il 55% delle grandi aziende, il 44% delle Pmi e il 48% delle Pa. Anche il personale ha identificato alcuni lati da migliorare. È diminuita ancora la percentuale di smart worker pienamente ingaggiati, ossia soddisfatti e legati all’impresa e al proprio lavoro, passata dal 18% al 7%. Una percentuale comunque maggiore rispetto agli altri lavoratori, fermi al 6%.
In crescita il technostress, gli impatti negativi a livello di comportamento o psicologico a causa del prolungato uso delle tecnologie. Un fenomeno presente per un lavoratore su quattro, in prevalenza agili. Infine, persiste la controindicazione più comune del lavoro agile: l’overworking. Il 13% del personale, in particolare smart worker, donne e manager, ne hanno risentito. Sotto questo aspetto, il 6 maggio 2021 è stata varata la prima legge italiana che regola il diritto di disconnessione per i lavoratori da remoto, ma tanta strada resta da fare.
Smart working più sostenibile
Lo studio dell’Osservatorio si è soffermato sui benefici sociali, economici e ambientali del lavoro agile. L’81% delle grandi aziende intervistate sostengono che la sua applicazione favorisca l’inclusione delle persone che vivono lontano dalla sede di lavoro, oltre che dei genitori – per il 79% – e di coloro che si prendono cura di anziani e disabili – secondo il 63%. A questo si aggiunge un importante risparmio di tempo e di denaro per gli spostamenti: 123 ore e 1.450 euro in meno all’anno per ogni lavoratore che va in ufficio in auto.
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Nei giorni in cui i leader mondiali si trovano a discutere degli obiettivi di sostenibilità ambientale alla Cop26 di Glasgow, il report del Politecnico ha messo l’accento anche sul ruolo dello smart working nel ridurre le emissioni inquinanti. L’applicazione del lavoro da remoto ai livelli previsti dopo la pandemia permetterà di evitare la produzione di 1,8 milioni di tonnellate di C02 ogni anno. Una quantità pari all’anidride carbonica che potrebbero assorbire 51 milioni di alberi. Risultati che, secondo Corso, raddoppierebbero “se si estendesse l’applicazione dello smart working ai livelli che i lavoratori desiderano e che la pandemia ha dimostrato essere già possibili con le tecnologie attuali”.
Un bilancio troppo rilevante per pensare di fare marcia indietro sul tema. Occorre invece incentivare il vero smart working, regolamentato e ripensato secondo logiche rinnovate rispetto alla fase di emergenza che ha reso necessario l’adattamento repentino di milioni di lavoratori. “Per cogliere tutti i benefici dello smart working serve l’impegno di tutti i soggetti“, dichiara Alessandra Gangai, direttrice della ricerca smart working nelle Pa. “Alle organizzazioni spetta il compito di strutturare progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership. I lavoratori“, continua Gangai, “devono allenare skill più adeguate al nuovo work-life balance“. Il terzo protagonista sono i policy maker, chiamati ad “accompagnare questa trasformazione con onestà intellettuale e lungimiranza”.