Gli allevatori chiedono di ottenere prezzi sostenibili sul litro di latte venduto e un nuovo sistema di ripartizione delle quote di produzione. Una protesta trasversale, senza sigle
Tra elezioni in Abruzzo e campionato di calcio, la notizia è passata quasi sotto traccia: relegata a folklore, con le immagini dei bidoni di latte versati in piazza. Quello che pongono però i pastori di Sardegna è un problema che va ben oltre la questione puntuale del prezzo per litro di latte: in ballo c’è la dinamica stessa con cui viene gestito oggi il mercato agroalimentare, di fatto regolato dalle più classiche leggi di domanda/offerta che hanno causato però negli anni distorsioni che hanno condotto ai fatti di questi giorni. Con i “pastori”, che altro non sono che allevatori di tradizione centenaria, che minacciano proteste eclatanti: compreso il blocco di aeroporti, strade e porti, fino alle elezioni regionali del prossimo 24 febbraio.
Le modalità della protesta
Nonostante qualche tentativo di strumentalizzazione, al momento sembra pacifico affermare che nessuna sigla si possa intestare la protesta del latte che sta montando in Sardegna. L’unico movimento riconoscibile più o meno chiaramente è quello – molto attivo su Facebook – denominato Movimento Pastori Sardi (MPS): una sigla che raccoglie trasversalmente le istanze di tutta la categoria, e che si sta dando molto da fare per superare la spettacolarizzazione di questi avvenimenti e far passare la gravità della situazione attuale nell’agroalimentare dell’Isola. Ma che non vuole mettere il cappello sulla protesta.
Le proteste hanno generato una serie di iniziative: quella che abbiamo visto quasi tutti in televisione dei bidoni di latte rovesciati (si tratta soprattutto di latte non lavorato e non commestibile, tipicamente ovino destinato a produzione casearia), ma sono state anche bloccate strade nevralgiche per la Sardegna come la Statale 131, e nel corso della giornata di domenica il porto di Porto Torres ha visto la presenza di blocchi e proteste con persino l’assalto a un TIR che trasportava semilavorati della carne provenienti dall’estero e destinati al mercato sardo. Ieri, infine, la squadra del Cagliari è scesa in campo a San Siro con una maglietta di sostegno alla causa dei pastori sardi. Va anche sottolineato come non tutto il latte venga sprecato: alcuni allevatori stanno regalando il proprio latte ai cittadini che ne fanno richiesta.
I prossimi passaggi della protesta potrebbero essere sempre più eclatanti: dopo i porti potrebbe toccare agli aeroporti, e nelle prossime settimane gli allevatori minacciano di organizzare cordoni per ostacolare il regolare svolgimento delle elezioni regionali previste per il 24 febbraio. Una ipotesi ventilata anche per cercare di attirare l’attenzione della politica, con i leader nazionali già attesi sull’isola per la campagna elettorale: vedremo se il premier Conte e gli altri Ministri, che si sono già detti attenti alla vicenda, interverranno in qualche modo.
Le possibili soluzioni
MPS sottolinea un punto cruciale: l’economia sarda storicamente deve moltissimo all’allevamento ovino e caprino, che ha fornito i capitali necessari a mettere in moto l’ascensore sociale che ha prodotto negli anni ricchezza bastante a permettere alle generazioni figlie di pastori di studiare, e di mettere in piedi anche altre attività utili a far crescere tutto il tessuto produttivo isolano. “Chi ha studiato all’università qui è cresciuto a latte di pecora – ci spiega un portavoce del movimento – Tantissimi hanno potuto realizzare i loro sogni e diventare quello che sono grazie al latte di pecora”. La mancanza di possibilità di produrre ricchezza con l’allevamento rischia quindi di causare a valanga una serie di conseguenze negative per tutta la Sardegna, dove la pastorizia è ancora un industria importante e che oggi viene scelta anche dai giovani per costruirsi un futuro, oltre a causare un impoverimento culturale e storico non trascurabile.
Questo, come detto all’inizio, è anche un caso esemplare di come il mercato agrifood sia soggetto oggi a spinte contrastanti che rischiano di dilaniarlo. Da un lato c’è l’inevitabile concorrenza globale, che vede i produttori italiani confrontarsi con quelli europei e non solo: spesso però una concorrenza che si gioca con regole diverse, che possono penalizzare i produttori in virtù di un approccio lungimirante che però viene ignorato da altre nazioni. Quello venuto al pettine in Sardegna è solo il primo nodo, a cui seguiranno altri e che è stato preceduto da altri: il consumatore finale, che al dettaglio vede solo l’etichetta col cartellino, non può rendersi conto fino in fondo delle dinamiche che portano il cibo fin sulla sua tavola.
Per tutelare il made in Italy e il patrimonio gastronomico italiano, di cui il pecorino romano e sardo sono parte integrante, una possibile proposta che circola sarebbe contingentarne la produzione – scelta che tuttavia finirebbe per produrre probabilmente gli stessi paradossi delle famigerate “quote latte” se mal gestita. Più semplicemente, gli allevatori sardi chiedono che nell’immediato venga praticato un prezzo sostenibile per la vendita del latte alle aziende casearie: una cifra attorno a 1 euro (+ IVA) dovrebbe garantire almeno la copertura dei costi di produzione, garantendo la sopravvivenza di un settore e la salvaguardia di un caposaldo gastronomico del made in Italy.
Oltre a questo, i pastori sardi portano avanti anche una proposta: l’azzeramento dell’attuale sistema di produzione e vendita per passare a una nuova impostazione del mercato legato a delle cosiddette quote pastore. “In questo momento i pastori non sono proprietari del latte che esce dalla mammella delle pecore” ironizza il portavoce di MPS, che illustra quale sia l’attuale dinamica di questo mercato: i trasformatori, l’industria casearia, ha il potere di imporre il prezzo per litro e il pastore non ha altra scelta che vendere a quella cifra. Definire a livello europeo un tetto alla produzione, legando però le quote al pastore e non alla produzione nazionale, ridarebbe agli allevatori potere contrattuale: “La Sardegna lavora sulla qualità e non sulla quantità: su questo l’Unione Europea dovrebbe garantirci il suo sostegno”.
Perché i pastori sardi protestano
Non c’è un casus belli, al momento, che abbia acceso la protesta: negli scorsi giorni si sono diffuse notizie di un sequestro di prodotti semilavorati provenienti dall’estero, ma la notizia risale a ormai tre anni fa. Quel che è successo è che una situazione che si trascinava da tempo è esplosa. Per alcuni anni il pecorino romano ha visto salire in modo significativo il prezzo al chilogrammo, in virtù del suo utilizzo per la creazione di mix di formaggio venduti soprattutto all’estero e l’impiego nella produzione di cibi a livello industriale: questo ha spinto a produrre questo tipo di formaggio per approfittare di questa domanda, causando nei fatti una iper-produzione tipica delle bolle speculative.
Come spesso accade, all’aumento dell’offerta corrisponde però una concorrenza spietata che causa inevitabilmente il calo del prezzo medio: inoltre, se aumentano le scorte di magazzino anche questo causa un calo del prezzo al chilogrammo. Questa dinamica ha dato vita a una spirale che ha causato un crollo del prezzo del formaggio pecorino romano DOP all’ingrosso, lo scoppio della bolla in pratica, e di conseguenza ha fatto crollare anche il prezzo pagato a chi lo produce per ogni litro di latte. Fino alla situazione attuale: gli allevatori sardi lamentano di vedersi costretti a vendere a 55-60 centesimi di euro al litro, a fronte di costi di produzione ben superiori. Appare poi poco comprensibile come mai il costo della materia prima sia legato a un solo prodotto, il pecorino romano, a fronte di molti altri derivati venduti a prezzi decisamente superiori sia sul mercato all’ingrosso che al dettaglio.
Di fatto, si sta ripetendo quanto abbiamo già visto succedere in altri settori dell’agroalimentare: non vale la pena raccogliere la frutta se il prezzo che viene pagato al chilo o al quintale è inferiore al costo di produzione, e questo a catena blocca anche l’assunzione di lavoratori stagionali per la raccolta e finisce per riflettersi sul costo a scaffale di un prodotto. Gli allevatori sardi lamentano di stare producendo latte “in perdita”: per riuscire a rientrare dei costi dovrebbero venderlo almeno a 1 euro più IVA, mentre allo stato attuale sono costretti a indebitarsi per vendere. Una situazione a dir poco paradossale.