Un intervento di Lauren Razavi riapre il dibattito sulle sorti della Silicon Valley e su dove (e come) si farà innovazione nei prossimi decenni. Forse attraverso il nomadismo digitale
Quali saranno le “startup city” del futuro, e quali hub di nomadi digitali hanno le carte in regola per diventarlo? In un bell’intervento sul suo sito e su The Next Web la scrittrice e attivista Lauren Razavi (al momento tech policy fellow al Tony Blair Institute for Global Change) ha provato a rispondere. Partendo da un dato di fatto: la Silicon Valley non sarà per sempre la capitale della tecnologia e delle startup. Conoscere le persone che costruiscono il futuro, incrociare progetti e programmi con le persone più talentuose e ambiziose in circolazione e approfondire idee e categorie che cambieranno il pianeta: potrebbe avvenire in molti altri posti che non in quella fetta di California. Per esempio quelli del nomadismo digitale.
I nomadi digitali, spiega Razavi, potrebbero essere il gruppo più indicato e nella migliore condizione possibile per incubare una nuova cultura delle startup che possa rinnovare gli schemi degli ultimi decenni di crescita roboante. Sono quelli che già si muovono sul campo, e nel concreto, da tempo: “Ovunque vadano portano nuovi valori senza confini – spiega l’autrice – questi valori saranno alla base di nuove opportunità, strategie, pratiche, reti, policy nei prossimi anni”. Sì, ma cosa significa nella sostanza? Che i luoghi più frequentati da queste comunità potrebbero essere tante nuove capitali dell’innovazione.
Com’è cambiato il nostro rapporto con i luoghi
Sono quelli che negli anni Dieci, sfruttando la connettività e la loro professionalità, hanno iniziato a vivere vite in gran parte senza confini, costruendo carriere e imprese viaggiando da un posto all’altro, costruendo un movimento di incontro e di frontiera poi giornalisticamente raccontato appunto come “nomadismo digitale”. In realtà, questo movimento ha già dato vita a una rete di startup city in grado di intercettare i loro bisogni e accogliere le loro idee: posti magari piccoli e meno noti ma con un forte ecosistema di business interno, standard di vita molto buoni ed economici rispetto ai mega-hub mondiali. Basta dare un’occhiata al sito Nomad List per rendersene conto, o alle tante piattaforme che classificano le città (grandi e piccole) in base alla loro capacità di accogliere i lavoratori in remoto, valutando decine di parametri: dai visti alla salute, dal meteo alla qualità dell’aria, dal costo della vita alle infrastrutture tecnologiche fino al tessuto di piccole e medie imprese.
“La crescita del lavoro a distanza significa che più persone possono scegliere come vivere: come coloni stabili o nomadi. Il rapporto umano con il luogo è cambiato” spiega Razavi. Ad esempio, Singapore, Dubai e l’Estonia sono diventate startup city, è vero. Eppure, nonostante spesso si incrocino, gli hub del nomadismo digitale sono diversi. “Le città note come capitali delle startup tendono a seguire una strategia collaudata per attirare talenti e assicurarsi investimenti stranieri: danno la priorità alle grandi imprese in base alle aspettative che seguiranno il resto. Gli hub dei nomadi digitali, tuttavia, vedono le persone come un percorso altrettanto attraente per il successo. Queste non sono solo startup city, ma startup city in remoto: i loro ecosistemi sono intenzionalmente progettati per l’economia remota globale”.
Il caso Bali e il nomadismo digitale
A metà degli anni ’10 Bali è diventata di fatto la capitale mondiale del nomadismo digitale. Se i nomadi sono una diaspora inversa – “una sottocultura che inizia distribuita a livello internazionale, si trova online e finisce per concentrarsi fisicamente” – allora l’isola indonesiana è stata il loro primo luogo di ritrovo offline. D’altronde era ed è uno dei posti ideali: clima tropicale, internet ad elevate velocità, spazi di coworking, alimentazione internazionale, prezzi contenuti, lingua inglese diffusa e anni di esperienza con il turismo australiano. Anche Lisbona è emersa più di recente. La capitale malese Kuala Lumpur e George Town offrono simili combinazioni di elementi di vantaggio. Altrove, come alle Barbados, politica, imprenditoria e residenti hanno addirittura sposato una visione del genere, lanciando (com’è accaduto in alcune altre destinazioni) il Barbados Welcome Stamp, un programma di visti per lavoratori in remoto che ha già attratto migliaia di nuovi residenti fra cui molte persone da New York e San Francisco.
Rischi e vantaggi del nomadismo digitale
D’altronde i conti sono presto fatti: se guadagni uno stipendio da Londra o New York, il tuo potere d’acquisto sarà enorme in un’economia emergente. “Con molti giovani professionisti esclusi dalla possibilità di acquistare un immobile nelle principali città, il lavoro a distanza crea gli incentivi per un tipo di vita molto diverso. La vicinanza del fuso orario è più importante della vicinanza geografica: finché ti presenti alle riunioni Zoom, non importa dove ti trovi” aggiunge l’autrice nella sua analisi. Ovviamente per le comunità che li ospitano, i nomadi digitali portano rischi e vantaggi. Nel secondo caso più spesa locale, connessioni all’economia globale e una cultura diversa che può dare vita a nuovi ospiti di lavoro e società, locali e globali. Come accade con il turismo, però, queste comunità possono anche diventare dipendenti dai viaggiatori, e la crisi pandemica lo ha chiarito con estrema profondità. C’è poi un fattore da considerare, riguardo l’equilibrio delle relazioni fra locali e persone che si spostano e una sorta di “colonialismo” che potrebbe ripresentarsi sotto altre fattezze.
La specializzazione
In ogni caso, una cosa è certa: le persone si muoveranno di più e a ritmi più bassi. Come disse Brian Chesky, cofondatore e Ceo di Airbnb, in un’intervista di qualche mese fa, “il confine fra viaggio e vita si sta sfocando. I lavoratori in remoto non stanno solo viaggiando con Airbnb, ci stanno vivendo per periodi lunghi mesi”. Un modo per prepararsi ad accogliere l’innovazione è specializzarsi: divertimento, interessi e destinazioni basate sulle comunità globali saranno gli ingredienti che disegneranno il futuro dei viaggi. La specializzazione crea una scena e una reputazione che garantiscono un flusso turistico di un certo tipo. Razavi racconta per esempio il caso della sua città natale nel Regno Unito, Norwich, divenuta Città della Letteratura Unesco e trasformatasi in un centro connettivo per scrittori, artisti, editori e per una scena culturale ampia, spesso straniera. “Tutto, dal marketing turistico ai graffiti a tema, si concentra su Norwich come città della scrittura e dei libri. Questo vantaggio si è tradotto in un’identità globale modesta ma forte. I visitatori vengono per inserirsi nella scena della scrittura” aggiunge l’autrice. Sono posti che erano fuori dalle mappe turistiche, in passato, ma che nell’era del lavoro in remoto potranno guadagnarsi un posto più che dignitoso: quando le persone possono lavorare da dove preferiscono, la loro localizzazione tende ad allinearsi al loro stile di vita, agli interessi o ai valori. Gli hub dei nomadi digitali possono offrire qualcosa in più: l’accesso a reti di nicchia oltre l’usuale panorama delle startup internazionali o locali.
Dove vogliono andare i viaggiatori del futuro
“I viaggiatori del futuro non vogliono andare in posti che offrono tutto ma non fanno nulla nel modo giusto. Vogliono andare in posti che fanno cose di nicchia e le fanno molto bene. Vogliono l’opportunità di sperimentare e imparare da loro – scrive Razavi – quando potresti essere ovunque, cosa rende un posto degno di essere visitato? Cosa sarai in grado di fare lì? Chi incontrerai? Viaggiare come lavoratore remoto non riguarda siti turistici supercool ma lo stile di vita di una destinazione e la cultura locale unica”. Per questo le città che si specializzeranno in determinate discipline potranno essere fondamentali per lo scenario dell’innovazione, e gli hub dei nomadi digitali sono la prima testimonianza di questa mutazione: possono creare contesti ottimali per diverse tipologie d’innovazione. “Quando le persone viaggiano più spesso, ciò che le farà tornare verso le precedenti destinazioni dipende in definitiva da un solo pezzo del puzzle: le persone – conclude l’analista – che siano residenti permanenti o temporanei, un luogo sarà giudicato in base alla forza delle connessioni umane che può innescare. Il successo di un hub nomade non si basa sul costoso patrimonio immobiliare o sulla presenza di investitori: questi erano gli ingredienti delle città startup del passato. Gli hub nomadi prosperano invece sul capitale sociale”.