Tre giornalisti ci raccontano perchè, anche in questi giorni, è importante celebrare la stampa libera
In un anno caratterizzato dalla drammatica crisi pandemica, la Giornata Internazionale della libertà di Stampa rischia di scomparire sullo sfondo di una situazione estrema: il 3 maggio ogni anno ricordiamo che la stampa, fin dalla sua comparsa, a cavallo tra seicento e settecento, si pone come architrave del liberalismo: il capitalismo con l’iniziativa privata e la democrazia rappresentativa moderna non avrebbero avuto la storia che sappiamo, senza il suo supporto e contributo nel divulgare con forza le nuove idee ad un pubblico sempre più ampio.
Allo sviluppo di un’informazione non controllata ideologicamente deve molto la stessa rivoluzione americana. Non è un caso che i giornali, allora composti da pochi fogli, siano stati ben presto visti -senza eccezioni- da tutti i regimi assolutistici come elementi di disturbo o potenzialmente eversivi. “La libertà di stampa è un’istituzione su cui non si deve decidere se è buona, ma solo se è possibile negarla all’opinione pubblica” faceva lucidamente notare Napoleone.
La classifica mondiale della libertà di stampa
Per tornare ai giorni nostri, i numeri forniti dal World Press Freedom Index registrano la tendenza, non confortante, ad un costante arretramento delle condizioni in cui la stampa si trova ad operare, proprio nelle sue storiche roccaforti, ovvero Europa e Stati Uniti. Una combinazione di parametri -pluralismo, trasparenza, censura, legislazione- colloca, purtroppo, l’Italia solo al 49° posto della classifica mondiale. “Come Direttore della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi, vivo con preoccupazione il cortocircuito informativo del nostro paese, in cui il clima di sospetto, delegittimazione e sfiducia coinvolge molti seri professionisti” dichiara Luca Solari, sottolineando che “compito di una scuola di giornalismo non è quello di trasmettere le sole competenze deontologiche, ma il senso di responsabilità del proprio ruolo sociale”.
Che la “vita” di una notizia sia di sempre meno durata, fagocitata come è da un’offerta mediatica frenetica e, a tratti, convulsiva, è un elemento che non facilita certo approfondimento, riflessione e analisi che, al contrario, richiedono spazi e tempi non in linea con stili di fruizione più superficiali, per i quali sono richiesti strumenti di comprensione del testo scritto meno evoluti. E forse è questo a spiegare la ragione per cui i social network più si predispongono ad accogliere fake news e manipolazioni di vario tipo: a fronte di una minor capacità interpretativa nella lettura da parte del pubblico, la competizione si è trasferita dalla carta stampata alla rete, con un conseguente svantaggio strutturale per un modello adattato alla prima.
La forza delle immagini
Anche se, in questo contesto, si dimentica spesso la potenza delle immagini, al cui enorme sviluppo e uso hanno contribuito proprio i social network, ma che -grazie alla loro immediatezza e all’assenza di intermediazione- sono gli strumenti più disarmanti dell’apparato fake. La fotografia del corpicino senza vita del bimbo siriano, scattata su una spiaggia di Bodrum dalla fotoreporter Nilufer Demir, ha espresso, con un’unica drammatica icona, la disperazione e la dimensione di un’umanità sconfitta: quella dei migranti e quella impotente. Ancora una volta, la fotografia ha riproposto, come nel caso di Eddie Adams a Saigon, un messaggio inequivocabile, inchiodando il mondo alle proprie responsabilità, denunciando, senza filtri e mezzi termini, la realtà dei fatti. Proprio la forza delle immagini le rende oggetto di continui confronti culturali, percorsi da innumerevoli interrogativi su chi eserciti la censura sulla divulgazione o meno di una fotografia, considerato che impedirne la circolazione può limitare, ancora più faziosamente, la libertà di stampa. “Le intromissioni, interne ed esterne all’editoria, sono frequenti – spiega Antonio Salvador, fotoreporter professionista dal ’79, proveniente dalla scuola fotografica americana, autore di importanti servizi per la Formula 1, per tornei tennistici internazionali, nonché inviato in zone di guerre per diverse agenzie di stampa – i condizionamenti interni sono più subdoli e si manifestano in pressioni politiche o da parte degli sponsor, che possono ritenere scomodo l’accostamento ad un articolo, ad esempio”. Ma cosa è pubblicabile? “Si presume che un’agenzia di notizie o una testata giornalistica chieda agli inviati in loco materiale che fedelmente racconti la realtà, ma non è sempre vero: nel 1984 mi trovai in Libano in uno dei teatri di guerra più esposti, per riportare quanto in corso. Eppure, spesso, mi sono sentito dire che certe “narrazioni” non erano funzionali alla tiratura della testata -ricorda Salvador- Mi domandavo, allora, se tante fotografie, passate poi alla storia e impresse nella memoria collettiva, come quelle delle esecuzioni del Vietcong, del soldato spagnolo di Robert Capa, del carro armato alleato addobbato con teschi nemici di Ralph Morse, o perfino dei campi di concentramento, subito dopo la liberazione, fossero stati censurati, che velo di omertà sarebbe calato a coprire ingiustizie e crimini?” conclude il fotoreporter.
Dovere degli organi di stampa non è, in effetti, quello di addolcire la realtà dei fatti, ma di aprire gli occhi su di essa, trascurando quanto questo possa urtare la sensibilità del pubblico. “Ricordo che, durante la dittatura militare in Brasile, ero riuscito a riprendere un censore della redazione di O Estado de São Paulo, uno dei più diffusi quotidiani del paese, tagliare, con una matita rossa, il contenuto di servizi giornalistici o fotografici ritenuto scomodo -aggiunge Salvador, non trascurando che “ad esempio, durante la rivoluzione sandinista, gli ospiti indesiderati erano invitati a lasciare il paese con metodi piuttosto espliciti: io stesso in Nicaragua fui trascinato a colpi di fucili in aeroporto”.
Ritornando a questi giorni e guardando “geograficamente” a casa nostra, la stampa libera non è amata nemmeno dalle multiformi organizzazioni criminali, talvolta, affiancate da modelli editoriali poco interessati al mantenimento dell’indipendenza dell’informazione. “La mancanza fisiologica di editori puri e la crisi economica del settore hanno favorito l’aggregazione di media diversi, allo scopo di massimizzare gli introiti derivanti, ormai quasi totalmente, dalla raccolta pubblicitaria -spiega Ignazio Riccio, giornalista d’inchiesta a lungo impegnato sul fronte della criminalità casertana e direttore della testata “Il crivello”- limitando i margini di azione della stampa libera”. Innegabile, infatti, in un contesto del genere, la tendenza ad uniformare la naturale eterogeneità dei punti di vista nella selezione e nell’approccio alla notizia, che costituisce, in ultima analisi, il più efficace antidoto al conformismo.
“Altro effetto collaterale è la tentazione ad orientarsi più agli inserzionisti che a rappresentare le istanze di fasce sociali ai margini, i quali, a loro volta, si rivolgeranno ad altri media, alimentando un circolo vizioso che scredita il giornalismo nel suo complesso, percepito come contenitore per veicolare interessi specifici o di parte” denuncia Riccio. Per la carta stampata andrebbe evitato il destino che, da tempo, affligge il mondo dell’editoria: produrre contenuti non in base al loro valore e all’utente finale, ma in riferimento a chi li fornisce: “La posta in gioco è alta e riguarda la perdita di quella tanto rivendicata diversità del giornalista rispetto a chi si limita a pubblicare, in un qualsiasi spazio, la propria tesi” afferma Solari. In tutti i casi, non siamo chiamati solo a denunciare quanto avviene, ma ad avanzare soluzioni e a correggere le distorsioni di un sistema oggetto di infinite pressioni e passibile di altrettanti errori. E se buona cosa è la diffusione di nuove testate on line, capaci di operare in modo più flessibile e, teoricamente, più sganciate da interessi privati, occorre sottolineare che -trattandosi di modelli emergenti, non codificati- più facilmente si scontrano con un assetto normativo elaborato per un mondo ormai superato, più aderente oggi a tutelare privilegi di casta piuttosto che le iniziative dei giornalisti. “La libertà di stampa, come tutte le altre, non si difende arroccandosi sulle istituzioni ereditate dal passato, ma calandola nella contemporaneità, nel rispetto dello spirito delle origini e delle esperienze migliori” conclude Solari.