I nuovi incentivi fiscali per gli italiani all’estero serviranno a farli rientrare? Ma soprattutto siamo sicuri che sia positivo far tornare in Italia imprenditori che hanno scelto un’altra strada? La mia opinione di expat
Qualche giorno fa ho ricevuto una preziosa comunicazione dall’Ambasciata Italiana a Berlino, con la quale mi si informa della possibilità di trasferire la mia residenza in Italia accedendo così ad un trattamento fiscale di favore.
E’ proprio vero: il cd. “decreto crescita” (d.l. 34/2019) approvato ad aprile scorso prevede, tra l’altro, agevolazioni fiscali per il cd. “rientro dei cervelli” – termine che, tanto per cominciare, ha qualche sinistra assonanza con il rientro dei capitali di berlusconiana memoria. Esaminando il testo del decreto o, più semplicemente, la tabella riassuntiva pubblicata sul sito della Farnesina, si evince che le casistiche contemplate dalla norma sono molteplici e relativamente complesse.
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Semplificando, se – per esempio – un lavoratore (dipendente o autonomo) che abbia risieduto all’estero per almeno 2 anni stabilisce la propria residenza in Italia impegnandosi a mantenervela per almeno 2 anni, viene sottoposto a tassazione IRPEF sul 30% dei propri redditi per un massimo di 5 anni. Se poi il lavoratore si trasferisce in una delle regioni del mezzogiorno (in pratica dall’Abruzzo in giù) il reddito imponibile scende al 10%. Sono poi previsti ulteriori sgravi, essenzialmente in presenza di figli.
La domanda che mi pongo istintivamente è: a che serve? O meglio: serve?
Immagino che in termini assoluti non ci sia da temere che la misura abbia un impatto apprezzabile sulle entrate dell’Erario: gli italiani all’estero sono circa 5 milioni, ossia grosso modo l’8% della popolazione italiana, e non tutti sono in possesso dei requisiti previsti dal decreto per accedere alle agevolazioni. Questo dovrebbe spingere a pensare che, tutto sommato, questa misura “non possa guastare”.
L’obiettivo dichiarato resta quello di “far rientrare i cervelli” e, per raggiungerlo, si introducono incentivi fiscali. Peccato sia ormai assodato che gli incentivi fiscali di per sé non attraggono un fico secco. I fattori che spingono imprenditori o, più in generale, operatori economici a radicarsi in un determinato luogo sono anzitutto altri: legami personali, connessioni sociali, infrastruttura, qualità della vita. Se poi a questi fattori si aggiungono anche gli incentivi fiscali, può darsi che portino frutto.
Francamente non so chi sia stato il promotore di questa norma, ma davvero pensava che un lavoratore italiano residente a Londra (tanto per fare un esempio) sarebbe stato spinto a rientrare a Cuneo o Vibo Valentia dalla sola presenza dell’incentivo fiscale? Chiamarlo wishful thinking è riduttivo. Anche perché, se questo è l’obiettivo, la norma è scritta male: io, che ho tre figli e un lavoro che posso svolgere sostanzialmente da remoto, potrei trasferirmi in un casale in Sicilia, continuare a lavorare per i miei clienti (in assoluta prevalenza non italiani) e fare la bella vita pagando le tasse sul 10% del mio reddito. Valore aggiunto per il territorio: zero.
Se proprio bisogna incentivare qualcuno a venire a lavorare in Italia, forse sarebbe più utile concedere agevolazioni alle imprese per assumere o per investire in Italia, invece che premiare il singolo.
Il fascino discreto degl’italiani all’estero
Quindi il decreto non è solo inutile, ma insegue anche un obiettivo a mio avviso più che discutibile. Chi ha mai detto che i cervelli italiani all’estero debbano per forza rientrare? Quella di “servire la patria” è un’idea romantica e risorgimentale, ma è ancora attuale nel 2019? E soprattutto: è proprio facendo “rientrare i cervelli” che si realizza?
Secondo me no. Troppo spesso si ignora che la (massiccia) presenza di italiani all’estero genera quotidianamente rilevantissime opportunità di sviluppare commerci, scambi culturali e politici di importante valore economico, soprattutto per un’economia tradizionalmente così concentrata sulle esportazioni. Non è un caso se i paesi con cui l’Italia ha più scambio commerciale sono quelli in cui la popolazione italiana residente è più numerosa. Altri paesi, come la Germania o la Francia, sembrano avere più consapevolezza di questo aspetto, tanto è vero che, per prima cosa, disseminano il globo terracqueo di scuole e università: chi le frequenta spesso trova una collocazione lavorativa nell’ambito degli scambi (di qualsiasi genere) tra i paesi coinvolti.
Quindi, se il vero obiettivo è quello di far crescere l’economia italiana e aumentare il benessere, soprattutto delle regioni più svantaggiate, la nazionalità dei “cervelli” che concorreranno a realizzarlo mi pare, tutto sommato, irrilevante. Sono altre, le condizioni da creare, e purtroppo non si ottengono con qualche modifica al TUIR.