Ha vinto premi prestigiosi, il suo team ha sfornato (in Italia) una delle tecnologie più rivoluzionarie degli ultimi anni. Ma continua a pensare al prossimo problema per cui trovare una soluzione. Lo abbiamo incontrato a Maker Faire Rome
Ha un punto di vista lucido, cristallino su come fare le cose: ha un metodo preciso, lo ha affinato in anni e anni di lavoro in quella che oggi si chiama STMicroeletronics, che quando è stato assunto si chiamava ancora SGS. Bruno Murari è la mente, e verrebbe da dire anche le mani dopo aver sentito la sua storia, dietro una tecnologia che usiamo ogni giorno in tantissimi device elettronici che abbiamo in casa, in tasca, nella borsa: c’è lui dietro i MEMS, Micro Electro-Mechanical Systems, ovvero quei componenti elettronici che integrano i segnali elettrici agli effetti meccanici della gravità e ci permettono di ruotare l’orientamento dello schermo del nostro smartphone, di contare i passi con il nostro smartwatch, di rendere il tocco di un braccio robotico delicato come una piuma.
Munari ci ha vinto un premio Sperry con i MEMS, primo italiano ad aver mai conseguito quello che è a tutti gli effetti il Nobel dell’ingegneria. Eppure, lo ripete continuamente, non è stato tutto solo merito suo e non è stato certo il primo ad avere l’intuizione giusta: “Non conta essere il primo, conta creare vera innovazione con le tue idee: e l’innovazione è quella capace di trasformarsi in un prodotto che finisce nelle mani dell’utente finale, che diventa utile – mi dice nel corso di una lunga e divertente chiacchierata in una delle sale di Maker Faire Rome 2019 – Perché un’invenzione tenuta in un cassetto non serve a nessuno”.
Dalla laguna al transistor
“Voglio fare una premessa, ti voglio raccontare un po’ della mia vita” esordisce Munari appena ci siamo seduti: lì per lì non capisco perché voglia cominciare da quando era bambino, ma poco a poco diventa tutto chiaro. Dalla sua infanzia spesa sull’isola di San Giorgio nella laguna di Venezia, fino al diploma e a uno dei suoi primi impieghi in una società di ricerca mineraria che non esiste più: la Somiren. Da quelle esperienze ha appreso tanto, mi spiega: “A 10 anni sono andato in vacanza in montagna e ho scoperto gli aeromodelli: tornato a Venezia ho seguito un corso, ho preso il brevetto per pilotarli e ho iniziato a costruirli. Pian piano ho iniziato a partecipare a delle gare, a vincerle, e ho imparato che cosa significa lo spirito della competizione. Quella – mi ripete – è stata un’esperienza che mi ha dato la voglia di fare, perché ho capito che potevo riuscire a fare qualcosa di originale, di diverso dagli altri”.
La storia di Sominer ha qualcosa che la unisce alla precedente: assieme ai suoi colleghi girava in elicottero la Sardegna alla ricerca di giacimenti di minerali radioattivi, all’epoca il nucleare per l’Italia era ancora una possibilità, e mentre sorvolavano il territorio a bassa quota a lui spettava il compito di tenere sotto controllo gli strumenti per misurare le radiazioni. “Quello che succedeva era che se gli strumenti segnalavano qualcosa i geologi chiedevano di atterrare e andavano di persona sul sito a dare un’occhiata”: una metafora, mi spiega, che ha segnato il resto della sua carriera. “L’attività professionale passa anche attraverso questo: si vola a bassa quota alla ricerca di qualcosa di prezioso, e quando si intravede una possibilità ci si ferma, si scende e si tocca con mano. Dall’alta quota non si vedono i dettagli”.
Il metodo giapponese e l’empatia
Se le parole di Murari vi suonano familiari, è perché questo “pensionato” ha sviluppato nel corso della sua carriera un metodo di lavoro che oggi costituisce quello che nelle startup e nelle grandi aziende viene definito una best practice. Condivisione delle conoscenze (chiamatela knowledge sharing se preferite fare gli esterofili); team trasversali che affiancano marketing, vendite, R&D e produzione, con la metafora delle competenze a “T”; centralità del cliente per garantire la sua soddisfazione; metodo di sviluppo che tiene al primo posto le richieste e i feedback dell’utente. Senza mai trascurare un approccio empatico: “Nel lavoro non c’è spazio per orgoglio e presunzione: bisogna accettare il mondo è pieno di talenti, spesso superiori al tuo, ma occorre imparare a gestire i talenti, a stimolarli per dare vita a progetti ambiziosi”.
Così Bruno Murari ha portato avanti la sua carriera, non senza sbagliare: “Quando è arrivato il metodo giapponese che diceva fai la cosa giusta la prima volta, io ribattevo che è impossibile farlo sempre: a volte devi fallire! Anche Leonardo Da Vinci ha fatto errori e ha imparato: o dai suoi errori hanno imparato i suoi successori”. Quel che conta è la fiducia, mi dice, soprattutto di un capo per i suoi collaboratori: “Aiutarli a superare le difficoltà, capire cosa è andato storto e trovare assieme la soluzione giusta. Condividere i problemi, noi lo facevamo con riunioni settimanali, ricordandosi che non esiste un solo modo per trovare una soluzione”.
E poi avere voglia di sporcarsi le mani: “Anche quando guidavo un team da 500 persone ho continuato ad andare coi miei ragazzi a trovare i clienti: parlare col cliente, intuire i suoi bisogni e persino i desideri non ancora espressi, comprendere le sue difficoltà e tornare da lui con una soluzione. È così che si crea un legame duraturo: il tuo cliente diventa un tuo partner, con lui fai crescere la soluzione che hai trovato per lui, perché è solo restando in contatto con il cliente che si può sviluppare una tecnologia efficace ed efficiente”.
La Legge di Moore e la roadmap
Esistono due modi di fare innovazione, mi spiega ancora Munari: la ricerca pura, quella che ti conduce a dominare un’intera materia e che produce una soluzione per un problema che ancora non c’è, che è costosa e richiede tempo ma che può produrre di colpo grandi cambiamenti. Che, però, non capitano tutti i giorni. Accanto a questa però c’è anche l’evoluzione costante, il continuo affinamento di un processo, una visione che conduce a una roadmap e che produce un’evoluzione costante: “Pensate alla Legge di Moore: si era capito che la micro-litografia avrebbe consentito di portare avanti la previsione che Moore aveva descritto con una legge matematica, e seguendo quella visione si è passati da una intuizione a una continua evoluzione”.
C’è un’innovazione lenta e progressiva, e una di rottura, e sono entrambe necessarie: “Se ho un bisogno e non so come risolverlo, ho un obiettivo da perseguire”. Munari ricorda di quando ci fu il passaggio dalle valvole ai transitor, di come in quell’epoca che oggi sembra tanto lontana (ma parliamo di solo qualche decennio fa) per ogni problema non si faceva altro che cercare una soluzione, certi che con l’impegno sarebbe arrivata. Ed è un po’ quello che succede oggi in una startup: “I MEMS sono stati di fatto una startup nata dentro la nostra azienda, un’azienda in cui si può fare grande tecnologia” ricorda. E c’è da giurarci che con la testa stia ancora pensando a un altro problema da risolvere: d’altronde, ci confessa, anche se ora è in pensione non ha certo smesso di lavorare.