I cavi sottomarini consentono di portare la connessione in fibra ottica in territori anche remoti, comprese le isole e agli arcipelaghi del Pacifico. È soprattutto qui che si sta concentrando la sfida commerciale, ma soprattutto geopolitica, tra Washington e Pechino
TAIPEI – Navi da guerra, aerei militari, missili. Quando si parla di Stretto di Taiwan, mar Cinese meridionale e oceano Pacifico solitamente si osserva sempre ciò che si muove in superficie. Ma, in realtà, la sfida tra le grandi potenze Stati Uniti e Cina è aperta anche su quello che si muove sott’acqua. Stiamo parlando di sottomarini, sì: ma non di quelli resi celebri presso il grande pubblico dal celebre film Caccia a ottobre rosso, bensì di cavi. I cavi sottomarini consentono di portare la connessione in fibra ottica in territori anche remoti, comprese le isole e agli arcipelaghi del Pacifico. È soprattutto qui che si sta concentrando la sfida commerciale, ma soprattutto geopolitica, tra Washington e Pechino, con l’inclusione di altri attori coinvolti più o meno direttamente che percepiscono come potenzialmente a rischio la propria sfera di influenza. Anche perché i cavi hanno una capacità di immagazzinamento di dati molto più elevata dei satelliti.
La mappa delle connessioni è sempre più fitta in tutto il mondo, ma diversi stati del Pacifico, soprattutto meridionale, hanno ancora bisogno di nuovi progetti. È qui che c’è il maggiore spazio per aggiungere delle rotte sulla mappa. Ed è qui che la Cina è particolarmente attiva con progetti in grado anche di estendere la portata della sua diplomazia nei paesi dell’area. Ci sono otto “stazioni” sottomarine da cui partono o in cui arrivano i tracciati dei cavi. Tre di queste sono controllate da China Telecom, quattro da China Unicorn e una da china Mobile. La battaglia sul tema è cominciata contestualmente, o anzi ancor prima, delle ben più reclamizzata contesa sulle infrastrutture di rete 5G. Lo scontro sui cavi sottomarini è una componente fondamentale della più ampia guerra fredda tecnologica che coinvolge, in realtà, le due più grandi potenze in un testa a testa geopolitico. Essere i promotori di un progetto di interconnessione digitale, infatti, è anche una potente arma diplomatica da sfruttare nelle relazioni bilaterali con gli stati del Pacifico, che potranno anche essere spesso di piccole dimensioni e con pochi abitanti, ma possiedono comunque una spiccata rilevanza strategica.
In principio furono le Isole Salomone.
Tre anni fa era stato bloccato il progetto a guida cinese che avrebbe dovuto raggiungere la capitale Honiara. L’Australia, venuta a conoscenza dell’accordo tra l’arcipelago suo vicino e Pechino, aveva infatti deciso di intervenire, facendosi carico di una spesa di circa 137 milioni di dollari pur di bloccarlo. Nel 2020 sono stati conclusi i lavori per 4700 chilometri di cavi che collegano Sydney a Honiara.
L’Australia, che ha rapporti a dir poco tesi con la Cina, è tradizionalmente il principale investitore del Pacifico meridionale con 6,6 miliardi spesi nell’ultimo decennio, ma Pechino ha aumentato la sua presenza nell’area con circa 1,4 miliardi messi sul piatto dal 2010 in poi. Ancora poco rispetto a Canberra, ma l’interscambio commerciale tra la Cina e le isole del Pacifico è più che decuplicato nel giro di pochi anni. E ci sono stati anche rilevanti sviluppi geopolitici. Isole Salomone e Kiribati hanno ceduto alle avances di Pechino, tagliando i rapporti con Taiwan nel 2019. Resiste invece Palau, che ha anzi partecipato alla spedizione dell’ambasciatore Usa presso la sua capitale a Taipei solo pochi mesi fa. Era la prima volta dal 1979 che un ambasciatore statunitense in carica si recava in visita a Taiwan. Canberra ha comunque provato a scongiurare l’espansione dei cavi cinesi creando un fondo da 1,48 miliardi di dollari per progetti infrastrutturali per gli stati del Pacifico, parte dei quali dedicati proprio allo sviluppo dei cavi sottomarini.
Il ruolo degli Stati Uniti
Ma negli ultimi tempi, da quando cioè la cosiddetta trade war tra Stati Uniti e Cina è tracimata in qualcosa di molto di più, anche Washington opera in modo molto più attivo sul tema dei cavi sottomarini nel Pacifico. L’episodio più rilevante è quello che sembra aver trovato una soluzione proprio il 3 settembre, quando Reuters ha anticipato che gli Stati Federati di Micronesia hanno dato il via libera a un progetto di cavi sottomarini finanziato dagli Stati Uniti, dopo aver bloccato un precedente progetto finanziato da compagnie cinesi, in particolare da Huawei Marine, che è oggi controllata (col nome di HMN Technologies) dalla Hengtong Optic Electric Co Ltd. La proposta arrivata dalla Cina è stata ostacolata dall’inizio da Washington, che sostenevano creasse rischi per la sicurezza. Come accaduto nel caso delle Isole Salomone, anche qui sostanzialmente il piano americano ripercorre il piano originario cinese, unendo due dei quattro stati della federazione, Kosrae e Pohnpei. La linea dovrebbe essere collegata al cavo HANTRU-1, che arriva nel territorio insulare statunitense di Guam.
Solo poche settimane va, il governo locale di Nauru, nazione insulare del Pacifico centrale utilizzata dall’Australia per un enorme centro di accoglienza per migranti, aveva avviato un processo che aveva portato allo stop del progetto cinese, che avrebbe dovuto raggiungere anche Kiribati. Mentre gli Stati Federati della Micronesia hanno una partnership difensiva decennale con Washington, Kiribati è decisamente entrato nell’orbita cinese negli ultimi due anni e al momento non è chiaro se sarà incluso nel progetto. Intanto, si cerca di dare una spinta anche alle aziende taiwanesi in particolare a Chungwa Telecom, che ad agosto ha firmato un accordo per partecipare al progetto Apricot, lanciato da Google e Facebook. Lungo 12 mila chilometri, dovrebbe entrare in funzione nel 2024 per connettere Taiwan, Giappone, Singapore, Indonesia, Filippine e Guam. Sempre Chungwa è stata inclusa nella costruzione del Southeast Asia-Japan 2, che dovrebbe essere pronto nel 2022. La partita sarà lunga.