Gli USA, dopo 12 mesi, formalizzano le accuse nei confronti dell’azienda cinese. Niente di nuovo, dice l’azienda: sono vecchie accuse, mai provate e che confuteremo di nuovo
La battaglia tra USA e Huawei non conosce tregua: non bastasse il caos legato al Mobile World Congress cancellato per paura del coronavirus, finalmente il Dipartimento di Giustizia federale ha depositato le sue accuse nei confronti dell’azienda cinese. Accusata di aver allestito un racket e di associazione a delinquere per sottrarre dati e segreti commerciali alle concorrenti (ovviamente tutte aziende statunitensi). Accuse respinte al mittente da Shenzhen: è solo fumo negli occhi, fanno sapere dalla Cina, nessuno ha mai dimostrato alcuna accusa di questo tipo e non ci riusciranno neppure questa volta.
Le accuse e l’estradizione del CFO
A essere oggetto delle accuse sono quattro entità: Huawei Device Co Ltd (Huawei Device), Huawei Device USA Inc (Huawei USA), Futurewei Technologies Inc (Futurewei) e Skycom Tech Co Ltd (Skycom). Sono accusate di aver messo in piedi un giro di racket per rubare i segreti delle aziende statunitensi tra cui figurano Cisco, Motorola, Fujitsu, Quintel TEchnology, T-Mobile e CNEX Labs, sin dal 1999. Secondo il comunicato del Dipartimento di Giustizia, “Le nuove accuse si riferiscono a una condotta portata avanti per anni da Huawei, e molte sue sussidiarie, sia negli USA che in Cina, per appropriarsi indebitamente di proprietà intellettuale che include quella di sei aziende statunitensi, con l’obiettivo di far crescere il giro d’affari di Huawei”.
In ballo c’è anche il destino di Meng Wanzhou, il CFO di Huawei arrestato in Canada e per la quale gli USA hanno chiesto l’estradizione: il suo destino è in bilico ormai da oltre 12 mesi, senza che il procedimento a suo carico sia davvero iniziato, e senza che si sia mai potuti realmente entrare nel merito della consistenza delle presunte prove che hanno dato il via all’intero balletto. Un’onda che non ha fatto altro che crescere nel 2019, fino al bando della tecnologia Huawei negli USA (per cui però vige l’ennesimo rinvio della effettiva messa in atto, visto che nel frattempo nessuno è stato in grado di trovare una valida alternativa) che ha intralciato le attività dell’azienda, dato vita a un dibattito internazionale che per ora non ha visto però gli USA riuscire a convincere i suoi alleati ad arruolarsi nel suo team. Regno Unito, Germania e Italia, tra gli altri Paesi, hanno fatto sapere di voler continuare a impiegare apparati Huawei nelle proprie infrastrutture di telecomunicazione.
Meng Wanzhou, CFO di Huawei
La risposta ufficiale fornita alla stampa da Huawei è piuttosto dura: “Questo nuovo atto d’accusa è parte del tentativo del Dipartimento di Giustizia di danneggiare irrevocabilmente la reputazione di Huawei e la sua attività per motivi legati alla concorrenza, piuttosto che all’applicazione della legge stessa. Queste nuove accuse sono prive di fondamento e si basano in gran parte su vecchie dispute civilistiche ripescate dagli ultimi 20 anni che sono state precedentemente risolte, contestate e in alcuni casi, respinte da giudici e giurie federali. Il governo non riuscirà a fare prevalere le proprie accuse, che Huawei dimostrerà essere sia infondate che ingiuste”.
Cosa c’è (davvero) in ballo
Il culmine di questa vicenda paradossale è stato probabilmente raggiunto solo pochi giorni fa: quando il procuratore generale degli Stati Uniti, Bill Barr, non si sa bene a quale titolo ha proposto di risolvere il ritardo tecnologico e infrastrutturale degli USA in materia 5G acquisendo quote significative di aziende europee (Nokia ed Ericsson). Un’ipotesi quasi di stampo socialista: un’idea che ha fatto inorridire gli osservatori, e che è stata smentita direttamente dalla Casa Bianca per bocca del vicepresidente Mike Pence, nonché liquidata dal CEO di Cisco (indicata come uno dei possibili veicoli di questa operazione).
Le affermazioni di Barr hanno però messo in luce un punto cruciale della faccenda: a oggi gli Stati Uniti non sono in grado di perseguire l’autarchia 5G, e il perdurare di questa guerra commerciale sta ulteriormente ritardando lo sviluppo della nuova infrastruttura di telecomunicazione mentre il resto del mondo (Europa e Asia) procede invece a tappe forzate. Il 5G non è solo una tecnologia per scaricare dati più in fretta: è lo strumento attraverso cui costruire le smart city, con cui diventa possibile mettere in strada automobili a guida autonoma, è la tecnologia indispensabile ad ammodernare le capacità dei padiglioni industriali e della manifattura in generale.
Soprattutto, e qui c’è un’altra bella fetta del paradosso, quella 5G è una infrastruttura di telecomunicazione decisamente più sicura di qualunque altra esistente: se agli USA stessero a cuore la privacy dei suoi cittadini e delle sue aziende, allora il 5G dovrebbe essere una priorità nazionale. A Washington lo sanno, per questo hanno scatenato questo vespaio, ma fino a questo punto non sembra che la strategia seguita stia ripagando: ora si parla di prendere l’iniziativa per quanto attiene la prossima generazione, il 6G, ma è più che altro una boutade visto che si parla di tecnologia pronta non prima di almeno altri 10 anni. E nel frattempo?
La formalizzazione delle accuse da parte del Dipartimento di Giustizia ha, però, un risvolto positivo: finalmente gli USA saranno costretti a mostrare le prove che sostengono di avere a carico di Huawei, almeno per quanto attiene questa presunta vicenda di spionaggio industriale. Quanto ai sospetti insinuati sullo spionaggio delle telecomunicazioni altrui da parte della Cina, beh, quella è una faccenda più complicata: su quello, sui sedicenti rischi che gli apparati Huawei pongono alla sicurezza nazionale, per ora non abbiamo molto di più che la parola di Trump e di alcuni suoi luogotenenti.