Siamo passati da bla bla bla a blockchain blockchain blockchain, soprattutto in ambito finanziario. Molte banche hanno capito il valore dei registri distribuiti, e si riuniscono in gruppi di ricerca più o meno aperti per studiarne insieme evoluzioni e campi di applicazione. Eppure ad oggi nessuno dei 50 istituti finanziari riuniti in R3, il consorzio sul futuro della blockchain promosso dai colossi di Wall Street, ha fatto il primo passo. Il perché è presto spiegato.
I 3 passi inevitabili per le banche che vogliono entrare nella blockchain
Coloro che vogliono implementare la tecnologia nel proprio business sanno che andranno incontro a un investimento rischioso e costoso. Come sanno bene che la blockchain può funzionare solo all’interno di un network condiviso, il cui perimetro, sostanzialmente, sia composto non da una ma da tante banche. Non solo. Adottare i nuovi protocolli blockchain comporterebbe per le banche dover sottostare a un insieme di “regole del gioco”, alcune propedeutiche, altre parte integrante della nuova architettura. Ovvero:
1. Una governance chiara che stabilisca un compromesso tra modelli decentrati e la necessità di trovare nuovi meccanismi più agili di verifica e controllo, specie in un contesto così regolamentato come quello finanziario;
2. La scalabilità del modello. I DLT si sono evoluti dalla loro prima incarnazione, la blockchain, appunto, e devono dimostrare ancora la loro capacità di operare su larga scala e ancora di più di essere interoperabili;
3. I protocolli di sicurezza e difesa, sempre più necessari in un periodo storico in cui aumentano gli attacchi.
La giostra (costosa) che fa girare i soldi tra banche
Migrare su blockchain sarebbe certo un cambio di paradigma per il sistema bancario, ma anche e soprattutto un notevole risparmio. Secondo un report di Oliver Wyman ripreso da Fortune, la gestione delle transazioni tra banche costa alle stesse tra i 65 e gli 80 miliardi di dollari l’anno. Cifre dovute all’organizzazione del sistema usato oggi dagli istituti finanziari nei trasferimenti internazionali. Lo scambio va analizzato da un’autorità centrale che deve occuparsi di verificare che i soldi vengano effettivamente trasmessi e che nessuno dei partecipanti all’operazione provi a frodare l’altro.
Poi c’è un secondo livello di controllo che è quello che viene effettuato dai soggetti della transazione. Ognuno di questi passaggi si traduce in costi in termine di risorse impiegate, che devono effettuare manualmente i processi, e in tempi, i giorni necessari per finalizzare lo scambio.
Perché la blockchain conviene
Questo stesso sistema sarebbe diverso all’interno di un database condiviso (come la blockchain o un’altra forma di DLT), in cui tutte le attività sono registrate in tempo reale e visibili da tutti i protagonisti dell’affare. In tal caso, ogni qual volta un pagamento viene effettuato sarebbe validato da tutto il network e aggiornato in modo automatico sulla rete. Inoltre, le transazioni potrebbero essere avviate facendo unicamente ricorso a una firma digitale. I vantaggi sono intuibili: si eliminerebbero i mediatori, con il taglio dei costi e del tempo impiegato che ne consegue. Tradotto, molti di quelle decine di miliardi resterebbero nelle casse delle banche, che magari potrebbero investirli in R&D.
Ma alle banche convengono di più le revenue
Costi e benefici. Oggi i sistemi tradizionali gestiscono un flusso di circa 300 trilioni di dollari l’anno. Secondo uno studio della società di consulenza Bain & Company, questi numeri si traducono in 150-200 miliardi l’anno di revenue per le banche. Ovvero, soldi. Tanti soldi. Per questo si moltiplicano anche i dubbi delle stesse di fronte a ipotetiche nuove strade. Ed è anche comprensibile.
Aldo V. Pecora
@aldopecora