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Truffa ad azionisti, mazzette, riciclaggio di denaro e il maggiore furto della storia di dati bancari, appartenenti a 83 milioni di clienti di JP Morgan. Tante sono le accuse in una vicenda che ruota intorno a due trentenni americani, Anthony Murgio e Joshua Aaron, amici che sul web hanno fatto milioni con una miriade di imprese tra cui una piattaforma di exchange, Coin.mx, al centro dello scandalo.

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Un piano criminale milionario

I fatti: diverse sono le accuse principali che hanno messo i due ragazzi sul banco degli imputati, il processo è iniziato lunedì scorso. Tutto parte nel 2013 quando Murgio crea la piattaforma di exchange Coin.mx che in meno di un anno scambia milioni di dollari di criptomoneta. Peccato che gran parte di questi soldi (1,8 milioni di dollari, per l’esattezza), stando all’accusa, provengano da attività illecite, riciclaggio di denaro di un gruppo di hacker, gli stessi responsabili del furto dei dati di 83 milioni di consumatori di JP Morgan. Pare che per evitare controlli o occhi indiscreti Murgio abbia offerto mazzette di 150mila dollari a un’authority che si era insospettita. L’hackeraggio dei dati, che ha avuto come vittime non solo JP Morgan, ma una dozzina di aziende, sarebbe stato orchestrato da Aaron, insieme a due israeliani, Gery Shalon, che gestiva la piattaforma, e Ziv Orenstein, e all’appoggio di un numero non precisato di hacker russi, come riporta Reuters. I dati violati, soprattutto le email, sarebbero stati usati da Aaron per vendere azioni truffa con le quali ha messo in tasca 2,8 milioni di dollari (fonte Bloomberg).

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Sembravano bravi ragazzi

Come racconta Bloomberg, Anthony e Joshua hanno l’aspetto da bravi ragazzi con il loro background fatto di scuole prestigiose e di party per ricchi in Florida, a West Palm Beach. I due iniziano a fare affari sul web da giovanissimi quando si incontrano in una delle confraternite della Florida State University. Insieme a una dozzina di confratelli scrivono Google ads e sono così bravi a farlo che guadagnano migliaia di dollari al mese in commissioni. Poi qualcosa deve essere andato storto.

La voglia di scalare il successo, i primi soldi facili, li conducono a imboccare sentieri pericolosi e ad avere i primi problemi con la legge. Il primo a finire nei guai è Murgio che mette su tutta una serie di aziende su Internet per vendere qualsiasi cosa, dai purificatori d’aria, a prodotti di sicurezza per la casa, fino a investire offline in ristoranti e nightclub. Forse troppo: finisce in bancarotta con 545mila dollari di debiti e poi arrestato nel 2013 per una frode al fisco di circa 110mila dollari. Aaron invece si lancia nel marketing e sceglie come partner un tizio poco raccomandabile, un ex broker bannato a vita dal Financial Industry Authority Regulation, per aver violato tutta una serie di regole, tra cui la vendita di azioni di società hitech senza nessun valore. Nel frattempo, si trasferisce in Israele dove conosce gli altri due membri della presunta gang. Al suo matrimonio c’è anche l’amico fidato Joshua ed è lì che decidono di mettere su una piattaforma di scambi per bitcoin. Aaron compie più di un viaggio in Russia con sua moglie. In uno di questi viene raggiunto da Murgio. E secondo le indagini è in quella occasione che i due prendono contatti con gli hacker russi, responsabili dell’hackeraggio di JP Morgan e un’altra dozzina di aziende.

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 «I bitcoin (non) sono soldi»

Al primo grado di giudizio Murgio che è riconosciuto colpevole “solo” del riciclaggio e delle mazzette, ha rispedito al mittente le accuse. In sostanza, l’imprenditore sostiene che i bitcoin non possono essere considerati dei veri e propri fondi, dei soldi veri, perché non sono regolamentati dalle leggi federali. Peccato per lui che il giudice, Alison Nathan di Manhattan, abbia risposto picche: «I bitcoin possono essere usati per pagare beni e servizi direttamente su una piattaforma di scambio con un account bancario. Pertanto, svolgono la funzione di risorsa pecuniaria in quanto usati come mezzo per scambi e pagamenti», ha spiegato il giudice. Al povero Murgio non è toccata la stessa sorte di Michell Espinoza, il designer di siti web accusato di riciclaggio, scagionato da un giudice di Miami che ha ritenuto che i bitcoin non potessero essere equiparati a una valuta: «La Corte non è esperta in materia economica, ma è chiaro, anche a qualcuno che ha una conoscenza limitata nell’ambito, che i bitcoin devono fare anche tanta strada per essere equiparati a una valuta», questa la motivazione del giudice che tanto ha fatto discutere la community dei fedelissimi della criptomoneta.

Giancarlo Donadio
@giancarlodonad1