Accusato di aver sottratto preziose informazioni sulle auto a guida autonoma di Mountain View e di averle portate con sé in Uber. Per lui una cauzione da 2 milioni di dollari e il braccialetto elettronico per evitare la fuga
Fino a pochi mesi fa, ricorda il New York Times, Anthony Levandowski era uno dei più rispettati e richiesti ingegneri della Silicon Valley: esperto di guida autonoma, santo graal che insegue l’industria, aveva scalato le gerarchie di Google fino a diventare uno dei punti di riferimenti del progetto WayMo (la joint venture con FCA di Alphabet); poi aveva fondato la startup Otto per creare dei tir che si guidano da soli, infine era finito a Uber. Ma è proprio lì che è nato il problema: in questi cambi di casacca Levandowski si sarebbe portato dietro oltre 14.000 documenti sottratti a Google, informazioni preziose per tecnologie e algoritmi chiave in questo settore. Ora dovrà risponderne in tribunale.
sulla destra Anthony Levandowski
Galeotto fu il LIDAR
Il rinvio a giudizio di Anthony Levandowski è il secondo capitolo della vicenda giudiziaria: la disputa tra Google e Uber, anzi per meglio dire tra Alphabet e Uber, si era chiusa rapidamente nel 2018 con un accordo fuori dalle mura del tribunale che ha visto Uber riconoscere a Google un risarcimento sotto forma di quote azionarie della prima cedute alla seconda (per un valore di circa 250 milioni di dollari: ma non un solo centesimo era passato fisicamente di mano, solo azioni). Uber non aveva mai confermato (o ammesso) di aver ricevuto alcuna informazione indebita da Levandowski, si è comunque a impegnata a non usare nulla della tecnologia potenzialmente di Google nei propri prodotti, ma ciò nonostante ha preferito chiudere quel capitolo anche per mettere fine all’era Travis Kalanick – il founder nel frattempo non più al comando dell’azienda.
In ballo era rimasta però la posizione dell’ex-googler: quello di cui è ora formalmente accusato Levandowski è di aver prelevato dai server aziendali circa 14.000 documenti contenenti informazioni preziose per lo studio e lo sviluppo di soluzioni di guida autonoma, di averli trasferiti sul proprio laptop personale e di averli conservati anche dopo che i suoi rapporti con WayMo si erano interrotti. Il fatto che fosse andato via per fondare la sua startup, la già citata Otto, che poi era finita acquisita da Uber è un dettaglio non trascurabile ma non essenziale: non c’è stato alcuna perizia in tribunale a sancirlo, ma sembra che nel software di Uber non sia mai finito alcun ritrovato sviluppato da Google.
Quello che Levandowski aveva sottratto erano algoritmi software, ma anche schemi originali e proprietari relativi ad alcuni componenti hardware: come il LIDAR che equipaggia le vetture WayMo, un dispositivo che grazie al laser consente di rilevare la distanza di un oggetto sulla strada e dunque che riveste un ruolo cruciale nel funzionamento delle auto senza pilota. Secondo il procuratore che ne ha chiesto l’incriminazione, Levandowski si sarebbe macchiato di 33 casi di sottrazione (o tentata sottrazione) di segreti industriali: rischia 10 anni di carcere e sanzioni milionarie, tra ammende per ogni capo d’accusa di cui fosse ritenuto colpevole e i danni da risarcire.
Alla sbarra in California
A decidere per l’incriminazione di Levandowski è stato il procuratore David Anderson, che ha commentato la notizia con un laconico: “Tutti abbiamo il diritto di cambiare lavoro, ma nessuno ha il diritto di riempirsi le tasche mentre lascia l’azienda. Il furto non è innovazione”. Di fatto in questo caso c’è in ballo l’intero modello della Silicon Valley: un luogo dove la storia si confonde con la leggenda, dove alcune delle innovazioni di maggior successo della storia dell’informatica sono frutto del saccheggio più o meno tacitamente concesso del lavoro dei laboratori PARC di Xerox a Palo Alto (il mouse e l’interfaccia grafica sono in pratica nati lì, ma hanno fatto il successo di Apple a Cupertino e Microsoft a Redmond).
La conoscenza è ricchezza: certo conta l’execution, vedi appunto cosa riuscì a fare Apple con il mouse come non era riuscito a Xerox, ma da sempre esiste un clima davvero particolare per ciò che attiene la concorrenza in California. Esisteva persino una sorta di cartello tra le grandi aziende ICT per non strapparsi a vicenda i talenti a colpi di salari crescenti: lo ha certificato una indagine antitrust federale. Senza contare che per molti anni c’è stato uno scambio di teste e pedine con i CEO di un’azienda nel consiglio d’amministrazione di un’altra, e viceversa, così che tutti fossero in grado di controllare che gli altri non stessero tramando alle loro spalle.
A quel che si legge, comunque, Lewandowski è un soggetto davvero particolare: dopo essere stato cacciato da Uber ed essere finito al centro di una vicenda giudiziaria legata alla tecnologia di computer-vision per la guida autonoma, ha fondato una nuova startup che si occupa – incredibile a dirsi! – di supporto alla guida fondato su una tecnologia computer vision. Pronto AI, così si chiama, si è affrettata a chiarire che non c’è niente che accomuni la sua tecnologia con quella delle auto a guida autonoma: e ha anche messo in panchina Levandowski promuovendo uno dei manager a nuovo CEO. The Verge segnala anche che Levandowski ha fondato una chiesa: una organizzazione religiosa chiamata “Way of the Future”, che pone al centro del credo una divinità a base di intelligenza artificiale.