Un gran polverone si è sollevato con la calendarizzazione di una proposta in Senato. Ma l’interpretazione del testo è stata travisata dai media: lo dice lo stesso Quintarelli
Tanto rumore per nulla: è una “fake news” il caos montato su una proposta di legge presentata in Senato nel 2014 da Stefano Quintarelli, e che oltre un mese fa è stata licenziata in Commissione Comunicazioni e quindi calendarizzata per la discussione al Parlamento. Una “fake news” secondo lo stesso Quintarelli, che cita proprio Shakespeare: stigmatizza l’interpretazione offerta in merito da alcuni giornali italiani, interpretazione che ha voluto smontare pezzo per pezzo con un post sul suo blog personale.
Nessuno vuole mettere fuorilegge gli iPhone in Italia, dice Quintarelli, e nemmeno cambiare le politiche commerciali di Apple o di chiunque altro: la sua proposta di legge, dice nel suo post, serve a tutelare i consumatori e non a danneggiare la libertà d’impresa. L’idea è quella di introdurre una sorta di “device neutrality”, concetto simile alla più conosciuta net neutrality: impedire cioè che ragioni non tecniche impediscano a un’azienda di distribuire il proprio software su qualsiasi canale, o ai consumatori di scegliere liberamente quale software installare o non installare sui propri dispositivi.
La polemica
La legge in discussione risale al luglio 2014, quando venne presentata alla Camera: da allora è stata discussa in Commissione Trasporti a più riprese, pochi gli emendamenti presentati e un iter di discussione piuttosto lineare. Il testo è stato licenziato dalla Camera ed è passato al Senato, dove è stato discusso in Commissione Comunicazioni anche qui con sostanziale appoggio bipartisan e senza particolari modifiche: il testo finale, di fatto identico a quello approvato alla Camera, era stato quindi calendarizzato per essere discusso dall’assemblea così da poter essere approvato e trasformarsi in legge. A questo punto, tuttavia, la macchina si è inceppata.
Un testo, passato indenne attraverso 15 votazioni in 56 sedute, è diventato un caso mediatico. Gli articoli pubblicati dalla stampa nazionale (qui ce n’è uno) hanno messo in dubbio la portata del provvedimento, sollevando un polverone che potrebbe essere così sintetizzato: se questa legge venisse approvata qualsiasi dispositivo inserito in un walled garden, ovvero uno nel quale le app possono essere installate unicamente attraverso un sistema centralizzato di distribuzione previa approvazione, potrebbe diventare fuorilegge da un giorno all’altro in Italia. A farne le spese, prima di tutto, sarebbe Apple con i suoi iPhone e iPad. Tale interpretazione, tuttavia, leggendo il testo della proposta di legge pare decisamente errata.
Cosa dice la proposta Quintarelli
La polemica ruota attorno all’articolo 4 della proposta, il cui testo è il seguente:
1. Gli utenti hanno il diritto di reperire in linea, in formato idoneo alla piattaforma tecnologica desiderata, e di utilizzare a condizioni eque e non discriminatorie software, proprietario o a sorgente aperta, contenuti e servizi leciti di loro scelta. Gli utenti hanno il diritto di disinstallare software e di rimuovere contenuti che non siano di loro interesse dai propri dispositivi, salvo che tali software siano previsti come obbligatori da norme imperative o siano essenziali per l’operatività o per la sicurezza del dispositivo, delle reti pubbliche di comunicazioni alle quali si connette o dei dati gestiti dal dispositivo. È comunque vietata ogni disinstallazione effettuata al solo fine di consentire al dispositivo di funzionare in violazione di norme imperative.
2. I diritti di cui al comma 1 non possono essere in alcun modo limitati o vincolati all’acquisto o all’utilizzo di alcuni software, contenuti o servizi, salvo che gli stessi non rientrino nei casi previsti dal medesimo comma 1, da parte dei gestori delle piattaforme mediante strumenti contrattuali, tecnologici, economici o di esperienza utente.
Proviamo a tradurlo dal legislativo al linguaggio comune. L’articolo 4 dice essenzialmente che nessun gestore di un marketplace può operare una discriminazione di alcun tipo rispetto alle app che ammette nel proprio store, a meno che ciò non sollevino problemi in materia di sicurezza ed efficienza del dispositivo stesso (perché installare un’app che rallenta il telefono, o che “rubi” i dati personali per trasmetterli a terzi?), oppure se ci fosse una legge nazionale che la vieta. Inoltre, l’utente deve poter disporre liberamente del proprio apparecchio e poter decidere in ogni momento di aggiungere o rimuovere un’app: salvo che, ancora, ciò non pregiudichi il funzionamento del device (se si rimuove l’app dialer da uno smartphone, come si effettuerebbero poi le telefonate?).
La formulazione pare piuttosto equilibrata: da un lato c’è una maggiore garanzia per l’utente finale, che acquisisce un pieno di diritto di modifica sul prodotto che ha acquistato e pagato. Dall’altro, alle aziende viene lasciato uno spazio di manovra per garantire che questa norma non finisca per peggiorare la sicurezza e la bontà dell’esperienza utente. Su iOS, il sistema operativo di iPhone e iPad, non esistono praticamente virus: ciò è frutto della decisione di accentrare la distribuzione del software sull’App Store, canale che viene controllato da Apple stessa che si impegna a chiarire se il software venduto sia sicuro e privo di spiacevoli sorprese per l’utente finale.
Le sanzioni per chi viola la norma
Cosa succederebbe se venisse violato l’articolo 4 della proposta Quintarelli lo dice l’articolo 6:
1. L’omessa, incompleta o ingannevole informativa sull’offerta commerciale, come prevista all’articolo 2, rende il gestore di piattaforma responsabile della condotta prevista dall’articolo 22, comma 2, del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e sanzionabile dall’autorità competente, di cui all’articolo 27 del citato codice, che agisce d’ufficio o su segnalazione degli utenti.
2. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni vigila sull’osservanza delle disposizioni dell’articolo 3 della presente legge nonché degli articoli 3, 4 e 5, paragrafo 2, del regolamento (UE) 2015/2120 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2015, accerta le violazioni delle medesime disposizioni commesse dai fornitori di reti o di servizi di comunicazione elettronica e irroga le sanzioni di cui all’articolo 98, comma 11, del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo 1º agosto 2003, n. 259.
3. L’Autorità di cui al comma 1 dell’articolo 27 del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, è competente a valutare e sanzionare, ai sensi degli articoli da 21 a 27 del citato codice, le violazioni dell’articolo 4 della presente legge.
Senza andare troppo nel dettaglio, quello che dicono i tre comma è essenzialmente che se una associazione di consumatori per conto dei propri iscritti, o il produttore di un software, ritenessero di essere stati discriminati nell’accesso a un marketplace per ragioni non tecniche o di sicurezza, potrebbero rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Ciò equivale a presentare un esposto presso l’authority, che apre un’istruttoria, valuta l’esposto e decide se procedere ad avviare un dibattimento tra le parti in causa: se dovesse ravvisare una violazione della norma, questione di mesi e non di anni come avverrebbe in una causa in tribunale, può comminare una multa (cifre nell’ordine di qualche migliaia di euro) e imporre l’accesso al marketplace. In alternativa, se le parti raggiungono un accordo si può chiudere in anticipo il procedimento con un ravvedimento: ovvero il marketplace accetta di modificare il proprio comportamento e ammette l’app nello store.
Ma allora perché è montata la polemica?
Capire dove sia nata la polemica è materia da Sherlock Holmes di Sir Arthur Conan Doyle Doyle, più che da Shakespeare. L’iter parlamentare della proposta Quintarelli è stato molto lineare fino alla scorsa settimana. Nessuno di maggioranza o opposizione ha sollevato dubbi particolari, prova ne sia che il testo era passato senza modifiche dalla Camera al Senato ed era stato anche calendarizzato per la discussione e l’approvazione finale in assemblea (poi rinviato a luglio per ragioni puramente tecniche: troppi provvedimenti in discussione). Non ci sono state polemiche particolari o contrasti, è una norma che dovrebbe garantire soprattutto il consumatore finale e le piccole aziende come le startup, soggetti dalle risorse limitate che si potrebbero trovare a confrontarsi con giganti multinazionali che dispongono di imponenti uffici legali: chi è esperto della materia e ha letto il provvedimento con attenzione non ha potuto non raggiungere la stessa conclusione.
La proposta di legge non dice di voler mettere al bando alcun sistema walled garden, come di fatto è l’App Store di Apple (ma non è l’unico esempio): non c’è scritto da nessuna parte che debba essere consentito sempre di installare le app in qualsiasi modo lo si desideri, magari costringendo l’utente a operare lo sblocco (jailbreak) del proprio iPhone. Quello che dice la norma è che non ci devono essere motivazioni diverse da ragioni tecniche o di sicurezza (o di legge) che blocchino l’accesso di un’app a un marketplace. Se Apple (o Google, o Microsoft) stringesse accordi per impedire a chiunque tranne a una singola app di stare sul marketplace, allora i concorrenti si potrebbero rivolgere ad AGCM: non è mai avvenuto fino a oggi, non c’è motivo che ciò avvenga, e se ci fosse una norma che tutela i soggetti più deboli non sarebbe una cattiva idea.
Lo scorso 23 giugno, però, improvvisamente è tutto cambiato: cosa sia successo non è possibile stabilirlo, a questo punto della vicenda almeno, e non è neppure chiaro come mai un testo tutto sommato piuttosto comprensibile sia stato interpretato in modo così distante dallo spirito della proposta. All’estero, guardando al polverone che si è sollevato, si sono fatti una grossa risata.
La frustrazione di Quintarelli
Perplesso per quanto accaduto, Stefano Quintarelli ha provato a smontare sul suo blog una per una le polemiche sorte attorno alla sua proposta. Nessun intento anti-Apple, nessuna opposizione della maggioranza (anzi il Governo Renzi si era espresso positivamente in aula) e nemmeno un particolare sostegno da questa o quella forza politica. Nessuna incompatibilità con le norme europee: nell’iter della proposta sono intervenute anche le apposite commissioni che servono proprio a valutare questo tipo di eventualità, e non è stata sollevato alcun dubbio.
Cosa sia accaduto realmente è davvero difficile da comprendere: secondo Quintarelli “Il rischio di questa fake news adesso è che possa ostacolare l’approvazione di una legge che, come detto, ha avuto diffuso gradimento degli auditi, è stata approvata senza alcun voto contrario alla Camera ed ha attraversato tutte le commissioni del Senato senza variazioni. 56 sedute tra Camera e Senato, 503 parlamentari, 13 commissioni, 15 voti, approvata alla Camera all’unanimità”. Dice Quintarelli: se i senatori si facessero influenzare dalla interpretazione fantasiosa offerta da alcuni articoli di giornale, si potrebbe bloccare forse per sempre l’approvazione della norma. Soprattutto ora che siamo agli sgoccioli della legislatura. “Sarebbe un peccato e credo ci perderemmo tutti”, la sua chiosa finale.