Startupper seriale, Peter Kruger descrive provocatoriamente il panorama startup italiano: «Saremo pure creativi e invidiati, ma come marketer siamo delle schiappe». Ha fondato a Roma il primo acceleratore di startup del food, selezionando le prime 10, da tutto il mondo
L’obiettivo, nei primi mesi dello scorso anno, era mettere intorno a un tavolo imprenditori, grandi aziende e investitori e raccogliere 2 milioni di euro da investire in startup del food, anzi, del foodtech come tiene a precisare il suo founder e Ceo, Peter Kruger, «con un forte contenuto tecnologico, replicabile e scalabile nell’intera filiera del food, dai campi all’intestino» e aprire, a Roma, un acceleratore d’impresa interamente dedicato al comparto. Legandosi a un colosso mondiale nel mercato startup, una delle realtà più grandi al mondo, Startupbootcamp.
D’altra parte, i numeri reali e potenziali del mercato ci sono tutti per investire nell’innovazione tecnologica dell’agroalimentare, sia di filiera che, soprattutto dell’indotto. E per farlo dall’Italia: un modo per continuare idealmente a “coltivare” tutta la visibilità globale e le expertise che il nostro Paese si è guadagnato con l’ultima Expo di Milano.
Non solo. Ci sono i 100 milioni che Cisco, ad esempio, ha impegnato per l’Italia. Gran parte dei quali destinati proprio a progetti di innovazione della filiera agroalimentare, dalle infrastrutture, le “reti”, all’Internet of Things.
Kruger è riuscito nella prima parte dell’impresa, raccogliere i 2 milioni. E Startupbootcamp Foodtech Roma ha aperto ufficialmente i battenti nell’autunno 2016, presentando le 10 startup scelte per il primo percorso d’accelerazione.
Cosa ha fatto e soprattutto cosa ha in mente di fare l’acceleratore quest’anno ce lo racconta direttamente il suo founder, in questa intervista.
Peter, hai portato a Roma il primo acceleratore interamente verticale sul food…
«Esistono numerosi acceleratori food al mondo e anche in Italia. Per non parlare di incubatori e altri tipi di iniziative volte a supportare le startup del mondo food. Basti pensare a ciò che già fanno Hfarm, Digital Magics, The Future Food Institute, Alimenta, giusto per citare i casi italiani. Ciò che rende particolare Startupbootcamp FoodTech è una serie di caratteristiche che, al momento, lo rendono unico non solo in Italia, ma nel mondo. In primo luogo, non facciamo food, ma foodtech, ossia investiamo in startup con un forte contenuto tecnologico, replicabile e scalabile nell’intera filiera del food, dai campi all’intestino. In secondo luogo, siamo indipendenti, ossia non siamo l’emanazione di una grande azienda (corporate accelerator), o di un fondo, o di un’università. E questa è una caratteristica importante del modello di accelerazione che Startupbootcamp ha oggi sviluppato con 16 programmi in giro per il mondo».
Il modello Startupbootcamp, spiegato
Come operate?
«Anche se collaboriamo con tutte le organizzazioni interessate nelle startup, il nostro obiettivo è esclusivamente di investire e generare plusvalenze dagli investimenti fatti, senza nessun possibile conflitto d’interesse latente. In questo senso, siamo più allineati con gli interessi di startup ed investitori. In terzo luogo, siamo un’organizzazione che opera su scala globale. Quest’anno abbiamo ricevuto oltre 600 applications da tutto il mondo (oltre 60 paesi). Solo il 30% proveniva dall’Italia. E, infatti, delle 10 startup che abbiamo selezionato per il nostro programma solo 3 sono italiane. Le altre vengono da Germania, Spagna, Croazia, Regno Unito, Irlanda, Indonesia e Colombia».
Perché hai scelto di puntare tutto su questo mercato?
«Perché come organizzazione che opera su scala globale, gli acceleratori di Startupbootcamp cercano sempre di fare leva su ecosistemi che esprimono un’eccellenza globale per il settore verticale scelto. Si fa fintech e insurtech a Londra o New York, Smart Cities ad Amsterdam, eccetera, Per l’Italia ci siamo accorti che esiste ancora un settore dove siamo in grado di esprimere un’eccellenza riconosciuta a livello globale: il food. Mentre per tanti altri settori il nostro Paese sembra aver proprio perso il treno, nel food, addirittura, la leadership italiana negli ultimi vent’anni è addirittura cresciuta».
Quali sono i fattori che, in particolare, rendono l’Italia leader in questo settore?
«Oggi la Italian food experience è universalmente considerata la migliore al mondo. Perfino i francesi ce lo riconoscono. Ma l’Italia in questo settore è molto più. Siamo anche leader nella produzione industriale, nei processi e nei macchinari per l’industria. Come acceleratore, noi cerchiamo di fare da facilitatori tra la domanda d’innovazione espressa da questa industry e l’offerta di startup nel mondo. Devo dire che il sistema food Italia, ha risposto in maniera inaspettatamente forte. Cosa che ci sta premiando già con risultati straordinari. Giusto per dare un esempio, tra 16 programmi di accelerazione, siamo il programma di Startupbootcamp che ha ricevuto il maggior numero di applications al suo primo anno di attività. Un record. Ciò non sarebbe stato possibile senza la forte mobilitazione che abbiamo visto tra i nostri partner e con le imprese collegate nel nostro network».
Le startup del food su cui Startupbootcamp punta di più
Quali sono i progetti/app più interessanti che state accelerando?
«Dopo un processo di scouting e selezione durato quasi 6 mesi, abbiamo selezionato 10 startup. Sono tutte realtà di altissimo valore, con punti di forza unici. Si va da BiteBack Insect, un’azienda indonesiana che produce dagli insetti un sostituto dell’olio di palma e che sta già ottenendo riconoscimenti e grande attenzione mediatica in giro per il mondo, a Kiwi Campus, l’unica piattaforma di delivery che abbiamo preso in considerazione, una startup colombiana che ha sviluppato un modello estremamente performante di delivery nei campus universitari con operations già in 6 campus del Sud America ed uno in Usa, nientemeno che Uc Berkeley, a due passi dalla Silicon Valley. Ci sono i ragazzi croati di Trakbar che stanno applicando i sistemi di machine learning al mondo delle Sme (Pmi, ndr) nella ristorazione. Ci sono gli inglesi di Phytoponics che hanno sviluppato un innovativo container per le colture idroponiche capaci di ridurre del 50% i costi di impianto e manutenzione per questo sistema di coltivazione che rappresenta il futuro dell’agricoltura. Poi il team spagnolo di Fruitsapp, con un marketplace che mette in contatto i produttori con i grossisti. La startup irlandese MilisBio che, grazie ad un sofisticatissimo sistema di screening proteico, produce sostituti proteici degli aromi, a partire dallo zucchero. E, ovviamente, non mancano i team italiani, con Wallfarm, che io amo definire la Intel Inside del vertical farming, che ha sviluppato un sistema di controllo per colture verticali, una sorta di cpu del vertical farming. Poi i ragazzi di Elaisian che stanno applicando l’agricoltura di precisione ad un settore strategico e, al tempo stesso, estremamente vulnerabile del Made in Italy: l’olio d’oliva extravergine. Per finire, con i ragazzi napoletani di Evja che l’agricoltura di precisione la stanno applicando alle coltivazioni in serra e alla viticoltura».
Com’è stato il 2016 delle startup italiane, secondo il tuo osservatorio? Il fatto che siano quasi raddoppiati gli investimenti è una buona notizia, o non basta?
«Non so se sono l’osservatore migliore delle dinamiche nazionali del mondo startup. Noi operiamo veramente su scala globale. L’Italia spesso interviene più per i freni burocratici o per i limiti di funding a tutti ben noti. Ciò detto, mi pare si stiano facendo timidi passi in avanti. Le prime iniziative della Cdp e l’Industria 4.0 vanno senz’altro nella giusta direzione, cresce il numero di investitori professionali, ma la strada rimane ancora lunga».
Investimenti 20-30 volte inferiori alla media europea
Perché?
«Siamo ancora la Cenerentola europea del funding, con investimenti complessivi che sono 20-30 volte inferiori a quelli degli altri maggiori paesi europei come Uk, Francia e Germania. Le misure governative e regionali sono estremamente limitate nel nostro Paese come scopo e dimensione. I vincoli burocratici ancora ridicolmente obsoleti. Siamo l’unico paese al mondo ad essersi inventato una definizione burocratica di startup, mentre negli altri paesi gli incentivi alle nuove imprese sono universali (al più si mette qualche limite settoriale). Siamo anche vittime di molto provincialismo. Continuo a sentire ancora troppi “operatori” e “stakeholders” parlare di una “via Italiana” alle startup. Non c’è alcuna via italiana, esiste una sola via: è quella che perseguono britannici, francesi, tedeschi, turchi ecc.. Come “followers”, abbiamo il vantaggio di poter applicare da subito le ricette che si è visto funzionare negli altri paesi. Più tardiamo, e più treni perdiamo».
Peter, mi dici 3 startup italiane che hanno fatto bene nel 2016, e perché?
«Non seguo con grande attenzione l’offerta di startup nazionali. Mi concedo perciò di andare in conflitto d’interesse e citare tre startup in cui ho partecipazioni: Le Cicogne, Cocontest e Game Pix. Occhio a quei tre, Riserveranno grandi soprese».
Cosa non hanno capito dell’innovazione i politici
Un altro quesito che stiamo ponendo a molti è cosa è cambiato di più, non solo a livello di mercato ma anche a livello di “sensibilità” nei confronti dei temi dell’innovazione, rispetto agli scorsi anni?
«Nel mercato in cui operiamo noi, quello del food, c’è sempre stata una forte propensione all’innovazione da parte dei grandi player industriali nazionali. Penso ad aziende come Barilla, Ferrero, Granarolo, Lavazza, Illy e tante altre. Oggi questi player stanno imparando a fare anche open innovation, ma lo fanno a modo loro. Trovo molta saggezza nel loro approccio, molta serietà. Non si fanno attrarre dalle facili sirene dell’innovazione, che spesso non hanno mai innovato nulla in vita loro. Costruiscono ciascuno un percorso funzionale alle proprie esigenze strategiche sapendo bene cosa sia utile per loro, e cosa deleterio. Più in generale, in Italia, aldilà di tante chiacchiere, non vedo grandissimi passi in avanti. La politica, con forse la sola eccezione del Ministro Calenda, ancora non ha ben capito cosa sia l’innovazione, e scimmiotta frasi fatte filtrare dalle Pr delle grandi aziende di settore. Prima ripetevano i mantra di Telecom, oggi ripetono quelli di qualche grande colosso Usa».
“Come marketers siamo delle schiappe”
In cosa l’innovazione italiana può ancora fare la differenza?
«Per rispondere devo fare una distinzione. Personalmente, divido il mondo dell’imprenditoria in due categorie: ci sono i producers, coloro che fanno il prodotto, gli inventori, i realizzatori, spesso ingegneri, scienziati o informatici, e poi ci sono i marketers, coloro che sanno vendere, che sanno generare traction, aspettativa, e che sanno confrontarsi con la domanda del mercato. Ecco, in Italia abbiamo producers straordinari. I nostri tecnici hanno una creatività, dedizione, capacità ed esperienza spesso fuor dall’ordinario, che è apprezzata in tutto il mondo. Al contrario, come marketers, siamo delle vere schiappe. Per me, fare innovazione in Italia, vuol dire soprattutto portare una forte e sana cultura di mercato».
Per il 2017 che è appena iniziato riesci a individuare uno o più trend per il nostro ecosistema dell’innovazione?
«Come Startupbootcamp, quello che vediamo è una forte maturazione delle grandi imprese internazionali verso un rapporto con l’ecosistema delle startup più orientato al valore. C’è maggiore comprensione delle dinamiche delle startup, delle loro esigenze di crescita. Si è capito che, per fare innovazione, spesso occorre sporcarsi le mani. E dimostrare vero impegno: supportare una startup non è solo questione di soldi ma anche di quali competenze puoi mettere a disposizione. La concorrenza, inoltre, con i grandi investitori professionali aumenta e ciò è una buona notizia per tutte quelle startup che possono sviluppare prodotti o servizi d’interesse alle grandi corporations. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia. Nel tagliare gli approcci meno produttivi, vengono meno quelle iniziative ad ampio spettro, spesso orientate al marketing, che hanno aiutato tanti team nelle fasi iniziali a partire. Qui è essenziale che subentri l’intervento pubblico, con meccanismi trasparenti e automatici, altrimenti potremmo addirittura vedere una contrazione del numero di nuovi imprenditori.
Ecco, questo è il trend che vorrei vedere io: lo Stato Italiano che finalmente mette in campo una politica di incentivi per la nuova imprenditoria come puoi trovare già in tutti gli altri paesi avanzati».
Aldo V. Pecora
@aldopecora