Cosa succede quando una delle più grosse piattaforme di lending al mondo prova a ottenere licenze bancarie (depositi, conti correnti e di risparmio)? Che le lobby della finanza tradizionale si mettono insieme per impedirlo. La storia che ha coinvoltio SoFi, startup americana dei prestiti per studenti da record ($8 miliardi prestati) potrebbe segnare una svolta nel fintech. Ecco perché.
SoFi fa domanda per offrire alcuni prodotti tipici di una banca tradizionale e scatena il putiferio con un gruppo di banche che si uniscono per fare pressione all’authority di rigettare la richiesta. Le tensioni che sono nate svelano che la strada da percorrere, per rasserenare una volta per tutte i rapporti tra istituzioni finanziarie e fintech, è ancora bella lunga. Giovanni Daprà di Moneyfarm ci aiuta, mettendo a fuoco la vicenda.
Le banche: «Basta scorciatoie»
In inglese scorciatoia si dice “loophole”. Sono proprie le “loopholes” che non piacciono ad alcune lobby bancarie americane, come le oltre seimila banche racchiuse nella Indipendent Community Bankers of America, che hanno fatto pressione sull’authority preposta (la FDIC) perché valuti negativamente la domanda. Secondo gli accusatori, la piattaforma di lending starebbe beneficiando di una serie di vantaggi offerti ai player del fintech, come quelli di non dover rispettare tutte le normative e i cavilli riservati alle banche tradizionali. L’oggetto del contendere si chiama ILC, che sta per “industrial loan company”, in sostanza una normativa che consente anche a quelle che non sono istituzioni finanziarie di offrire servizi come depositi, conti correnti, carte di credito. Di fronte alla domanda di SoFi, le associazioni bancarie hanno riaffilato le unghie, come era avvenuto più di un decennio fa quando Walmart, la multinazionale statunitense di negozi al dettaglio, aveva provato a fare la stessa manovra, senza successo. In quel caso fu la stessa azienda a ritirarsi, vista i ritardi nei tempi di approvazione.
SoFi potrebbe farcela
Anche se i precedenti non aiutano a pensare con ottimismo (sono più di dieci anni che la FIDC non approva domande per ILC), SoFi è convinta di avere tutte le carte in regola per riuscire nell’impresa, almeno secondo Mike Cagney. Il Ceo è convinto infatti di possedere quattro elementi chiave che convinceranno l’authority a dire di “sì”. In primo luogo, l’ingente capitalizzazione (quasi $2 miliardi con player come SoftBank, il colosso delle telecomunicazioni giapponesi). Poi la banca online al suo interno: SoFI ha recentemente acquistato Zenback, che “offrirà la tecnologia necessaria per gestire le operazioni della banca). Come terzo elemento fondamentale per il successo di SoFi, Cagney considera l’esperienza del founder di ING Direct, Arkadi Kuhlmann, che sarà messo con ogni probabilità al timone della filiale che potrebbe nascere. E non per ultimo, l’investimento di 4 milioni per affrontare le spese di organizzazione della nuova realtà e i circa 166 milioni che verranno utilizzato per capitalizzare la banca nel primo anno di operatività: «Sono assicurazioni sufficienti per rassicurare l’authority», secondo Cagney.
Giovanni Daprà (Moneyfarm): «Le partnership, una soluzione possibile»
Anche se la vicenda SoFi sta riaccendendo le polemiche tra banche e fintech, per Giovanni Daprà di Moneyfarm, non ci sono alternative a uno scenario che vede i due attori sempre più cooperare per migliorare i servizi finanziari.
Cosa può rappresentare questa vicende negli equilibri tra fintech e banche?
«Segna un passaggio nell’evoluzione di un processo che vedrà inevitabilmente innovazione e tradizione a braccetto per la definizione di un nuovo modello che unirà l’esperienza di un sistema consolidato all’efficienza garantita dalla digitalizzazione dei servizi e dalla disintermediazione della distribuzione».
Se dovessi oggi “fare una fotografia” che racconta il rapporto tra fintech e banche, cosa ne verrebbe fuori?
«Spesso più per licenza poetica che per una reale fotografia della realtà, il rapporto tra Fintech e Finanza tradizionale (e, di conseguenza, l’ancora più romanzesco dualismo tra la piccola startup e la grande istituzione finanziaria) viene dipinto come bellicoso, con la startup (il Davide della situazione) pronta a minacciare e, volendo, distruggere quanto la Banca Golia di turno abbia costruito in decenni di indisturbato controllo. Ciò che invece si sta delineando è più un rapporto di partnership. Le grandi istituzioni finanziarie, governate da modelli di business consolidati, diffusi e remunerativi (ma con marginalità relativamente basse a causa di una inefficienza strutturale di fondo e di strutture elefantiache) iniziano a guardare sempre con più interesse all’esterno per le opportunità di innovarsi e rinnovarsi».
Quali le sfide future delle fintech nel rapporto con le banche?
«Le startup Fintech si scontrano con un mercato sui generis rispetto ad altri business cambiati (o stravolti) dalla tecnologia. Il paradosso, (che riscontra tanto in Europa quanto nei più digitalizzati USA), è che l’utente che si rivolge a un Digital Wealth Manager o a una Banca senza sportelli lo fa spesso più perché alla ricerca di un servizio (dal punto di vista finanziario del termine) diverso. Un servizio che sia meno costoso o semplicemente lo sceglie come reazione a una insoddisfazione di fondo per quanto offertogli dalla distribuzione tradizionale, e non necessariamente perché alla ricerca di innovazione a tutti i costi, tipica degli early adopters di altri modelli di business».
Cosa dovranno fare allora le fintech per convincere i consumatori dell’efficacia delle loro soluzioni?
«Dovranno riportare nel quadro di un servizio digitale, alcuni aspetti tipici del servizio tradizionale.
In fondo il percorso che si sta delineando è chiaro: vede i due attori (fintech e banche) andare con partnership (o acquisizioni) sempre più frequenti e modelli di business digitali che strizzeranno l’occhio a soluzioni che hanno caratterizzato il successo storico del modello tradizionale».