C’è un pezzo di economia che riguarda l’innovazione in Italia che si muove su binari diversi. Spesso silenziosi. Imperfetti. Ma che fanno la differenza. E’ il mondo dell’innovazione silenziosa
Poco prima di salire sul palco per la presentazione della 14 finale del Premio Nazionale Innovazione nel teatro Storchi di Modena , Marco Cantamessa, presidente di PNI Cube, l’associazione che promuove il premio mi diceva in disparte: «La nostra sfida più grande adesso è quella culturale. Non è facile far passare in ambiente universitario l’idea che con la ricerca, con un prodotto innovativo, si possono fare anche dei soldi. In qualche modo è visto ancora come qualcosa di negativo». Il far soldi. Denaro, ancora un po’ sterco. Ciò che altrove è normale e ha creato circoli virtuosi tra aziende, università e innovazione, in Italia ha un freno. Come un freno culturale è l’idea di successo. Continua a non piacerci troppo il successo. Che lo si meriti. O meno. O lo si ostenti.
Un giro rapido tra gli stand delle startup che hanno partecipato alla finale del PNI per necessità è diventato un lungo giro. Di qualche ora. Tra i banchetti di ragazzi che da tutta Italia arrivavano lì per contendersi il premio di migliore idea nata dalla ricerca. Alla fine ha vinto come succede spesso un progetto che potrebbe avere un impatto sulla vita di milioni di persone. Come è lo sprai che previene il raffreddore messo a punto dal team di Panoxyvir, insieme agli altri 3 finalisti.
Il volto poco noto, ma bellissimo, dell’innovazione
Ma è tutto ciò che è al di là della foto finale dei vincitori che fa la vera meraviglia di un premio come PNI. Dove si vede il volto poco noto dell’innovazione. Quello che non ha bisogno dei riflettori dei media per essere. Che non rivendica il proprio “status” di innovatore sui social. Riprendendo quello che Giuseppe De Rita, presidente del Censis, disse in una nostra intervista, l’innovazione che c’è, si fa, ma non vuole essere raccontata. Il residuale. La différance, per usare il termine originario coniato dal filosofo francese Jaques Derrida.
Colpiscono i volti di quei ricercatori. Gli occhi un po’ stropicciati, stanchi e entusiasti di chi fa ricerca. Che bello vederli. Che bello sentire le loro presentazioni. Chiamateli se volete i pitch. Belli nella loro imperfezione. Quanta differenza dalle frasi fatte e un po’ ridondanti che sentiamo nelle fiere delle startup, dove a volte sembrano tutti uguali. Quanta differenza rispetto al pitch patinato e un po’ ammiccante di un ceo che è lì a convincerti che vuol cambiare il mondo con un app. Non che non possa succedere, ovvio. Succede, è successo. Ma c’è un altro mondo dell’innovazione. Appunto quello silenzioso della ricerca. E che il mondo lo cambia davvero.
I risultati della ricerca in Italia, in termini economici
Ci vantiamo molto della ricerca nel nostro paese. E a giusta ragione. L’exit più grossa del 2016 sarà quella di uno spinoff, Creabilis, venduta qualche giorno fa per 150 milioni. A un’azienda americana. Come spesso accade. Come è successo per Vislab del professor Broggi. O Eos di Spinelli. 60 milioni la prima. 450 milioni la seconda. Tutte biotech. Tutte in qualche modo nate da ambiente universitario. Anche Pizzabo se vogliamo. Non nata in ambiente universitario, ma da uno studente universitario per studenti universitari. Sono quelle che guidano le classifiche che tanto piacciono ai media sulle exit più grosse. E così via. Ad oggi un terzo degli investimenti fatti in Italia in startup è fatto in progetti nati in ambito universitario.
Una storia d’amore
Un’altra storia. Una storia d’amore. La finale del PNI si è tenuta a Modena. A Modena ha sede Rigenerand. Uno spinoff universitario fondato dal dottor Mario Dominici. La sua terapia antitumorale ha raccolto quest’anno 8,7 milioni di euro. Il terzo round più alto quest’anno. Dominici studiava in America. «Dove tutto sembra facile» ha detto in un’intervista a Economyup. Ma è tornato in Italia per rendere quell’idea un’azienda. E lo ha fatto, ha detto, «per amore». Per amore della ricerca stessa, per amore del suo paese al quale deve la sua formazione, per amore della sua compagna di vita. Un’amore dantesco, di quello che muove la vita di tutti, la voglia di scoprire cose nuove perché «fatti non foste». Ma anche l’amore che move «il Sole e le altre stelle».
I casi di successo nati dal PNI. E dalla ricerca
E’ solo uno dei casi di successo (e di amore) . La vittoria del PNI ha dato la spinta definitiva nel 2004 a VivaBiocell, venduta poi per 60 milioni al colosso Nantcell. Nel 2005 lo ha vinto Electro Power System, che nel 2015 si è quotata in borsa a Parigi. La lista è lunga. Per andare in tempi più recenti, SilkBiomaterials di Antonio Alessandrino quest’anno ha chiuso uno dei round di investimento più grossi: 7 milioni, ad aprile. E lo scorso anno New Gluten World, pugliese, nata a Foggia, nel cuore del Tavoliere delle Puglie, il Granaio d’Italia, ha venduto quote per 1,5 milioni alla Molino Casillo spa. Il re del grano in Puglia. Che nella sua tecnologia per produrre farine senza glutine ci ha visto un affare. Un affare vero.
Il silenzio della ricerca. Il rumore degli Zuckerberg d’Italia
E’ l’innovazione che non si vede. Quella definizione che tanto mi affascinato del presidente del Censis De Rita. L’innovazione che non si cura dell’apparire ma che va al prodotto come sbocco naturale di un percorso intellettuale. Nato tra i banchi dell’Università e cresciuto nei corridoi dei dipartimenti. Prima di arrivare al mercato. Conquistandolo. Con exit, Ipo, o investimenti in quello che con un termine diventato buzz nel 2016 chiamiamo Open Innovation. L’innovazione che non si racconta. Che non si lamenta. Che è simile alle migliaia di startup che conosciamo e che fanno il loro senza eccessi di presenzialismo. Quelle che lavorano. Davvero. E sono tantissime. Quelle che non vanno sui media ogni tre per due a raccontarsi in veste riciclata e patinata da ottime società di comunicazione. Quante ne conosciamo? Troppe.
Arcangelo Rociola
@arcamasilum