Con la vendita del suo secondo marchio, l’azienda cinese prende tempo. In attesa che qualcosa cambi nei suoi rapporti con gli USA avrà tempo di rifiatare
Non è una notizia inaspettata, non è una sorpresa assoluta: ma sicuramente è un nuovo affascinante capitolo di questo romanzo d’appendice in cui si è trasformata la vicenda che vede contrapposte Huawei e gli Stati Uniti d’America. Con la vendita di Honor a un consesso di investitori cinesi, Huawei si compra un po’ di tempo: mette in cassa un po’ di soldi, si può riorganizzare e pensare al futuro. Il suo destino, e quello di Honor, ora divergeranno: cosa accadrà al marchio nato per affascinare i giovani è difficile dirlo, senza alle spalle l’R&D di Huawei, ma è altrettanto difficile capire oggi cosa accadrà a Huawei stessa nel prossimo futuro. In attesa che il nuovo Presidente USA si insedi alla Casa Bianca.
Un’operazione miliardaria
Il comunicato con cui Huawei ha comunicato la vendita di Honor è piuttosto stringato: non c’è indicazione sulla cifra pagata dal “consorzio di investitori” cinesi che rileverà marchio e operazioni del suo digital brand, ma secondo le indiscrezioni circolate nei giorni scorsi si parla di circa 15 miliardi di dollari. Non sono pochi, considerato che l’offerta Honor nell’ultimo periodo altro non era che l’offerta Huawei sotto mentite spoglie, ma è indubbio che il marchio goda di una buona popolarità (in madrepatria e all’estero: Europa in particolare): la cifra importante pagata servirebbe quindi soprattutto ad acquisire il blasone e la penetrazione di Honor in questi mercati, mentre la futura offerta sotto questo brand è tutta da definire. In ogni caso, a operazione completata Honor sarà libera: non sarà più soggetta ai vincoli del ban che colpisce Huawei, visto che non sarà più un marchio Huawei.
“Una volta che la vendita sarà completata – recita il comunicato ufficiale – Huawei non deterrà nessuna partecipazione e non sarà coinvolta in qualsiasi attività di gestione o alcuna decisione nella nuova Honor. Questa mossa è stata dettata dall’intenzione di garantire la sopravvivenza di Honor e della sua filiera industriale”. Si parla di un giro d’affari relativo a circa 70 milioni di smartphone venduti ogni anno, non proprio bruscolini: da parte sua, Huawei augura il meglio a “azionisti, partner e dipendenti” di Honor, e auspica che il suo ex-marchio continui a offrire valore e innovazione per i clienti affezionati.
Nel comunicato sul sito Huawei manca l’elenco delle decine di investitori che è entrato nella cordata per acquisire Honor, ma l’informazione non è un segreto: nel comunicato diffuso alla stampa asiatica c’è una lista dettagliata. Lista che potete vedere nell’immagine seguente, e che è composta apparentemente soprattutto da fondi di investimento: difficile però comprendere fino in fondo di chi sarà, realmente, Honor da qui in avanti. O chi prenderà le decisioni chiave per il suo futuro, quale direzione prendere e su quale tipo di prodotti concentrare il suo business.
Cosa succede adesso a Huawei?
Difficile anticipare oggi quale sarà il futuro di Huawei una volta che Joe Biden siederà al suo tavolo nello Studio Ovale: è improbabile che il suo primo atto sia destinato a rimuovere il ban imposto da Trump, Huawei non è certo la sua priorità, mentre è più probabile che il ban non venga rinnovato il prossimo luglio 2021 (ma, anche qui, non ci sono certezze). Negli ultimi giorni era arrivata la notizia che Qualcomm, principale attore con Samsung e Huawei nella costruzione di processori che equipaggiano gli smartphone Android, avrebbe ricevuto l’autorizzazione per vendere a Huawei i SoC con cui equipaggiare i suoi smartphone: ma senza 5G, con l’evidente intento di impoverire l’appeal dei cellulari cinesi.
Dunque nel breve termine non ci sono novità significative da segnalare: a Huawei è ancora impedito di accedere alle fonderie dei chip, quelle di TSMC sarebbero indispensabili per produrre il suo Kirin 9000 a 5nm che equipaggia il nuovo Mate 40 Pro. Huawei gode di alcune esenzioni, per esempio per acquistare processori da AMD e Intel per assemblare i suoi laptop, o per acquistare le licenze Windows da Microsoft: ma per il resto è ancora tutto fermo al blocco che le impedisce di commerciare liberamente con le aziende USA, per esempio con Google per le licenze Android indispensabili a montare i Play Service sugli smartphone, o per vendere i suoi apparati di rete agli operatori rurali che servono le aree meno popolose (e meno remunerative) degli Stati Uniti.
Se arriveranno effettivamente 15 miliardi di dollari nelle casse di Huawei, serviranno soprattutto a prendere tempo: in attesa, e con la speranza, che gli USA facciano la loro prossima mossa e che sia più clemente verso l’azienda cinese. Insomma, non ci sono novità fondamentali da raccontare oggi: la situazione resta ancora abbastanza ingessata, ma ora almeno a Shenzhen hanno meno gatte da pelare. Honor ha preso la sua strada, quale sia al momento è difficile da comprendere, Huawei continuerà a sviluppare i suoi Huawei Mobile Service alternativi ai servizi Google e costruire il suo sistema operativo alternativo HarmonyOS: questa storia è ancora lontana da concludersi, ma di sicuro si arricchisce ogni giorno di nuovi affascinanti sviluppi.