E’ trascorso quasi un mese dall’annuncio di Stefano Quintarelli, parlamentare e tra i pionieri della internet economy italiana, di una proposta di legge per vietare le criptovalute anonime. Non stiamo parlando (per ora) dei bitcoin, che (probabilmente ancora per poco) sono una criptomoneta ad anonimato parziale, o meglio, pseudonima, ma di un vasto mondo di monete digitali crittografate che derivano da simili tecnologie e protocolli, e che garantiscono anonimato completo su mittente, destinatario e ammontare delle transazioni.
La proposta di Quintarelli ha aperto una discussione dai toni anche accesi all’interno della comunità italiana bitcoin. Qualcuno, come il founder e Ceo di Blockchain Lab Giacomo Zucco, ha anche proposto l’espulsione del deputato da Assob.it, l’associazione che riunisce i principali operatori del settore in Italia.
Ora che del tempo è passato e (speriamo) gli animi si siano un po’ rasserenati, proviamo ad avviare qui su SmartMoney un think tank pubblico e aperto ai pareri e ai ragionamenti di addetti ai lavori e singoli esperti sui temi della crittografia, dell’antiriciclaggio e di quelle che sono le reali potenzialità e vulnerabilità di monete digitali e criptovalute. Il primo di questi è Andrea Danielli, filosofo delle scienze, contributor di CheFuturo!, da qualche anno impiegato presso la Banca d’Italia dove si occupa, tra l’altro, di antiriciclaggio. Naturalmente qui Danielli esprime solo le proprie opinioni personali, senza impegnare in alcun modo l’Istituzione per cui lavora.
Domanda secca: con chi stai, Quintarelli o comunità bitcoin?
«Con Quintarelli».
Perché?
«Perché la sua richiesta di discutere del tema dell’anonimato delle valute è sensata alla luce dell’attuale normativa antiriciclaggio. Provo a spiegare. Il decreto legislativo 231 del 2007, in recepimento della Direttiva europea 2005/60/CE, prevede diversi obblighi in capo agli intermediari: 1) conoscere, profilare, monitorare i propri clienti, 2) costituire presidi organizzativi per l’antiriciclaggio, 3) segnalare tutte le operazioni sopra i 15 mila euro (ed eventuali frazionate) all’Archivio Unico Informatico, 4) effettuare segnalazioni aggregate e Sos, segnalazioni di operazione sospetta, all’Unità di Informazione Finanziaria costituita per lo scopo presso la Banca d’Italia. Il primo punto è centrale per la lotta al riciclaggio: le movimentazioni devono essere coerenti con l’attività del cliente; se non lo sono, è possibile trovarsi di fronte a delle operazioni sospette. Ne deriva che: primo, occorre conoscere il cliente, secondo, occorre identificare compiutamente le movimentazioni che effettua».
Monete anonime e riciclaggio
Il governo ha alzato il limite del contante a 3 mila euro, non è anche questa una moneta anonima?
«Sì, lo è. Ma occorrono alcune precisazioni. Quel decreto legislativo prevede una soglia di 15 mila euro per l’archivio unico informatico ma, al tempo stesso, esplicita che una segnalazione di operazione sospetta non ha un importo prestabilito: ci possono essere aspetti soggettivi, ad esempio un cliente reticente nel dare spiegazioni, e oggettivi, che spingono a effettuare una segnalazione anche per 5 mila euro.
Esistono indicazioni Abi in merito all’uso del contante e, in particolare, sui tagli; frequenti operazioni di versamento sotto soglia, ma in banconote da 500 euro, sono monitorate e possono essere identificate come operazioni sospette. Fortunatamente la banconota da 500 non verrà più prodotta a partire dal 2018 – ma manterrà valore legale. In conclusione, l’anonimato del contante è per ovvie ragioni noto ed esistono soluzioni tecniche per cercare di arginarne l’uso a fini di riciclaggio. Tutto ciò premesso, sono favorevole al ritorno al vecchio limite di mille euro e a politiche di incentivi per diffondere carte di pagamento, dispositivi basati su nfc ecc».
C’è un limite per le criptovalute, secondo te?
«L’anonimato completo. A livello di diffusione c’è lo stesso limite che riguarda i pagamenti elettronici: la scarsa fiducia. Anche la forte volatilità al momento non aiuta, e rende le criptovalute ancora uno strumento per smanettoni… o per vittime di estorsione. Non c’è corso legale, non ci sono legami con l’economia reale, il bitcoin è un interessante esperimento che merita ancora molte analisi prima di diventare strumento di utilizzo comune».
«I divieti favoriscono l’innovazione»
Però se in futuro bitcoin dovesse diventare completamente anonimo secondo la proposta di Quintarelli dovrebbe essere vietato…
Sono pienamente d’accordo. I divieti e i vincoli favoriscono l’innovazione più di quanto si pensi. Il “liberi tutti” funziona molto bene con i pigri. Se vediamo a paesi innovativi come la Germania, Taiwan o il Giappone ci accorgiamo che non sono lande anarchiche. L’economista Ha-Joon Chang ricorda che la Corea del Sud è cresciuta del 6% annuo negli ultimi 30 anni anche se è necessario chiedere 299 permessi da 199 agenzie diverse per aprire una fabbrica. Certamente mi dispiacerebbe, sarebbe una sconfitta per tutti, e infatti provo a proporre degli accorgimenti tecnici sotto».
Cosa pensi della crittografia? È possibile vietare per legge gli algoritmi?
«Naturalmente per legge non si vietano gli algoritmi. Ma lo Stato ha ancora il potere di vietare l’utilizzo delle criptovalute agli operatori finanziari che vigila, a tutto il retail che vende in Italia, rendendo quasi inutile il ricorso alle medesime. Spetta infatti allo Stato il potere di emettere moneta, e il suo valore deriva unicamente dal corso legale, dato che una banconota da 500 euro è altrimenti un pezzo di carta. Il bitcoin non è equiparabile a valuta elettronica, come definita dalla Payement Service Directive, poiché non è emesso da nessun istituto sottoposto a vigilanza. La Bce riconosce però nel bitcoin una valuta, non un bene materiale, per analogia con la valuta virtuale, ed è pertanto necessario normarla evitando ambiguità».
A chi dare le “chiavi” della blockchain
Quindi, cosa fare?
«Non conosco così bene le criptovalute da sapere se la proposta che presento è tecnicamente realizzabile, ma con qualche pur scarsa nozione di crittografia non mi pare impossibile. Farò un paragone; chi va negli Stati Uniti può chiudere con un lucchetto il proprio bagaglio solo se il lucchetto può essere aperto da una chiave passepartout in dotazione della Transportation Security Administration. Allo stesso modo, sarebbe utile che le transazioni e le identità di chi le effettua fossero visibili unicamente all’Unità di Informazione Finanziaria ed equivalenti straniere. E la chiave deve cambiare costantemente, per evitare la figuraccia della TSA. Per quanto riguarda l’altro aspetto centrale dell’antiriciclaggio, la conoscenza del cliente, propongo che la verifica dell’identità, magari con firma digitale, sia richiesta unicamente a chi ha bisogno di movimentare valori sopra una certa soglia, a partire ad esempio da 3-5 mila euro di movimentazione mensile per singolo rapporto di cui è titolare. In tal modo possiamo tutelare l’anarchico che vuole vivere e comprare nell’anonimato stando comodamente seduto a casa, perché sappiamo che i piccoli importi non sono funzionali al riciclaggio, così come ci disinteressiamo di movimenti di contante poco rilevanti».
Chiaro, ma è un po’ riduttivo ricondurla a una questione di anarchici contro Istituzioni…
«Non propongo niente di strano: in caso di società fiduciaria, le autorità di vigilanza possono controllare il nome del fiduciante, che è contenuto in una busta chiusa e non è visibile a chi effettua le operazioni per suo conto. Ed è in linea con quanto sostenuto dalle autorità inglese e australiana, per le quali il rifiuto a fornire le chiavi crittografiche può essere sanzionato».
Che cosa pensi delle reazioni della community bitcoin?
«Molte reazioni che ho letto nell’articolo succitato sono perfettamente umane: stanno lavorando a un’innovazione che ritengono geniale, e il solito legislatore, conservatore, arretrato, vuole mettere loro i bastoni tra le ruote. Legittimo, capisco il lavoro che sta dietro le criptovalute e stimo molto chi lo sta svolgendo.
Mi permetto però di sollevare alcune critiche. Da un punto di vista normativo, la privacy può essere sottoposta alle esigenze di tutela dell’interesse pubblico; è il caso, per esempio, della normativa della Centrale dei Rischi: non è richiesto ottenere l’assenso del cliente all’iscrizione nella CR, né nella lettura dell’Archivio da parte delle autorità, dato che lo stesso ricerca l’interesse pubblico della stabilità del sistema bancario e della lotta al sovraindebitamento».
Le “tecno-élite”
E’ solo un problema di leggi?
«Certamente no. Da un punto di vista socio-politico, non esiste (ancora) una richiesta da parte della maggioranza della popolazione di anonimizzare i pagamenti su internet, forse perché se ne percepiscono anche gli aspetti negativi? Ho già scritto nei commenti ai pezzi precedenti che l’opportunità tecnica di un diritto non è alla base della sua statuizione: non esiste in Italia un diritto all’eutanasia e la sua conquista passa per anni di confronto e dibattito pubblico. L’innovazione si innesta sempre in qualcosa di preesistente e non ha senso forzare. E poi….»
E poi?
«Passatemi anche un po’ di fastidio».
Addirittura, fastidio…
«Vedo del provincialismo: negli Stati Uniti, patria dell’innovazione per tanti startupper, la questione è stata affrontata nel 2013, il bitcoin è stato qualificato come servizio finanziario e, in quanto tale, è sottoposto alle norme nazionali a contrasto del riciclaggio di denaro e ai conseguenti controlli. E poi, vedo un atteggiamento di “turbo-individualismo” molto elitista. Chi lo sostiene pare pensare “ho le capacità per sparire da uno Stato che non mi rappresenta più, e allora le uso e pretendo libertà”. E’ la resa ad agire pubblicamente, rischiosa se attuata da chi ha un crescente potere: la tecno-élite crea enormi differenze di reddito, distrugge posti di lavoro, si è impossessata dei mercati finanziari. E le soluzioni che ipotizza sono mancette per tutti. Siete intelligenti, siete competenti, venite a parlare con chi cerca di tenere in piedi delle istituzioni che, al momento, non paiono sostituibili in toto».
Aldo V. Pecora
@aldopecora