Seconda per diffusione di pos (uno ogni 52,5 ogni mille abitanti, poco meno della Grecia) ma terzultima nel numero di transazioni: solo 52,6 a testa ogni dodici mesi (peggio di noi, solo Romania e Bulgaria). In Italia il “bancomat”, come colloquialmente viene chiamato, c’è, ma non si vede. Esercenti e professionisti si conformano all’obbligo ma tengono il dispositivo ben nascosto dietro al bancone. Qualcuno appende un cartello “guasto”. Altri impongono limiti minimi di spesa tali da rendere impossibile usarlo, ad esempio, per fare colazione al bar.
In Europa le cose vanno diversamente. Per dare un termine di paragone, la media del continente è di 157 transazioni l’anno per cittadino; in testa alla classifica svettano Danimarca (364,1), Svezia (348,7) Finlandia (331,5), Regno Unito (314,9). I dati arrivano dall’Osservatorio Cashless di The European House – Ambrosetti.
“Un fatto culturale” spiega Arianna Landi, ricercatrice del think tank, a StartupItalia. “Ma il contante è molto usato anche in Germania, dove le macchinette installate sono solo un quarto di quelle presenti da noi – precisa la studiosa -: tanto che a Berlino è difficile pagare con carta”.
In Italia un sommerso da 210 miliardi
Insomma, i pagamenti elettronici non sono un dogma ovunque, come insegnano i tedeschi, ma di sicuro aiutano a non evadere le imposte. La società senza contanti è tornata al centro delle discussioni dopo i recenti annunci del governo, che starebbe considerando sgravi fiscali per chi sceglie di usare carte e app, che consentono di ridurre il nero.
Il cumulato di sommerso economico ed economia illegale nel nostro paese vale circa 210 miliardi di euro, pari al 12,4% del PIL. “Non solo – prosegue la ricercatrice – Il cashless consentirebbe anche un recupero dell’IVA non versata (il cosiddetto VAT gap) stimata in Italia 35 miliardi di euro nel 2016: una cifra che ci vede primi in Europa”.
Ma si può davvero fare a meno del contante? “In realtà, sappiamo bene che è impossibile – ammette Landi – Se così fosse, basterebbe un blackout per bloccare tutto il sistema dei pagamenti. Noi suggeriamo di andare verso un modello di società che ne faccia uso il meno possibile”.
Del resto, se fare a meno del cash offre vantaggi anche dal punto di vista ambientale – i dati diffusi da Reteclima parlano di 3,78 grammi di Co2 equivalente per transazione contro i 4,6 del contante – resta aperto il tema dei soggetti non bancabili, quelli che non hanno un IBAN: poveri e migranti, in primis, che non hanno accesso agli strumenti tecnologici. E naturalmente i ragazzini, a meno di voler costringere le nonne a dare la mancetta di fine mese con un bonifico.
Mentre il contante continua ad aumentare dentro i confini nazionali e il nostro paese rientra tra le 35 “peggiori” economie del mondo per cash intenisty, qualche dato positivo c’è. Il valore delle transazioni con carte di pagamento associate a IBAN nel 2018 è stato di circa 200 miliardi di euro, con un aumento di circa 20 miliardi rispetto al 2017 (+ 5,55% in 10 anni). Per quanto riguarda la prepagate senza IBAN (ad esempio, Postepay) si è passati da 24,9 a 29,7 miliardi (+20.5% tra 2008 e 2017).
Noleggi e commissioni, i costi del pos
Se il pos non attecchisce tra gli esercenti la ragione riguarda, probabilmente, anche i costi. Il report di Ambrosetti non fornisce dati al riguardo, ma noleggiare un apparecchio bancario richiede spese mensili per canone di locazione e utenza telefonica dedicata, sostenibili solo in presenza di un giro d’affari elevato. Non solo: i contratti spesso impongono una commissione fissa sulla singola transazione, quasi invisibile in caso di grandi importi ma che rende sconveniente per l’esercente consentire di pagare il classico caffè.
Un problema parzialmente risolto da player innovativi come Sumup, che offrono un dispositivo agganciato alla linea del cellulare e privo di costi di noleggio. Qui il modello di business è differente: la startup guadagna una percentuale sulla transazione. Oneroso per le grandi spese, ma l’ideale per quelle ridotte, e infatti l’azienda punta su piccoli esercenti e professionisti. Come quasi sempre accade, la spinta all’innovazione arriva dalla concorrenza. Sapranno le banche adeguarsi?