Ne avevamo parlato lo scorso febbraio del Petro, la criptovaluta – non proprio cripto, ma insomma – che il dittatore venezuelano Nicolás Maduro ha lanciato lo scorso febbraio. Anzi, forse sarebbe proprio il caso di chiamarla cripto, visto che ora che le sarà agganciata la nuova valuta reale – il neonato bolívar soberano – sarà davvero un’impresa capire valori e quotazioni, impostare transazioni e valutare un tasso d’inflazione fra i più prorompenti della Storia moderna.
La dittatura post-chavista
Andiamo con ordine. Il Venezuela, imprigionato in una dittatura post-chavista, vive dal 2014 una massacrante crisi economica che ha distrutto il Paese, messo in fuga milioni di persone e ridotto alla fame quelle rimaste. Alla base della crisi ci fu la caduta del prezzo del petrolio, che è sostanzialmente l’unica risorsa economica del Paese, oltre alla malandata gestione del bilancio da parte dell’esecutivo. I claudicanti servizi sociali messi in piedi ai tempi di Hugo Chavez, sostenuti dalle entrate del greggio, sono così precipitati. Conducendo alle assurdità economiche di oggi, con un’inflazione che potrebbe toccare la soglia mostre del 1.000.000% a fine 2018.
Nutrirsi in Venezuela
L’impressionante reportage del fotografo Carlos Garcia Rawlins, molto circolato in queste ore, da un’idea plastica della montagna di banconote di cui c’è bisogno per assicurarsi elementari generi di prima necessità. Il reddito minimo non è sufficiente per comprare un chilo di carne. Per un pollo servono 14,6 milioni di bolívar (poco più di 2 dollari), per un rotolo di carta igienica 2,6 milioni, circa 40 centesimi di dollaro, per un chilo di carote circa 3 milioni (46 cent), per un pacco di spaghetti 2,5 milioni (38 centesimi) e così via. Situazioni viste di rado, in passato, e in contesti drammatici come lo Zimbabwe.
Le “riforme” economiche
Così, visto che la moneta nazionale è divenuta sostanzialmente carta straccia, Maduro e i suoi hanno deciso di mettere in campo una serie di provvedimenti puramente nominali per cercare di dare un minimo di sollievo ai 30 milioni di abitanti, molti dei quali stanno fuggendo in Colombia e Brasile verso Ecuador o Perù che nel frattempo hanno chiuso le frontiere dispiegando gli eserciti. Fra l’altro, molti venezuelani non dispongono del passaporto. La situazione è d’altronde surreale: secondo le stime della Caritas di qualche mese fa nel Paese ci sarebbero circa 280mila bambini denutriti mentre un bambino su tre presenterebbe danni fisici e mentali irreversibili, le farmacie sono sguarnite pressoché di tutto, molti sopravvivono grazie alle rimesse dall’estero e, nel regno del petrolio, manca pure la benzina. I negozi e i camion che trasportano generi alimentari sono presi d’assalto.
Fra i provvedimenti sfoderati da Maduro c’è l’incremento di 34 volte dei salari minimi, operazione replicata già cinque volte dall’inizio dell’anno, fino a 30 dollari mensili. La nuova valuta, il bolívar soberano, conta cinque zeri meno del predecessore bolívar forte, che aveva toccato un tasso d’inflazione del 40.000%. Ma ogni tentativo, anche la più grande svalutazione monetaria della storia (più o meno 95%, il l tasso ufficiale per la nuova valuta, il bolívar sovrano, passerà a partire da oggi da circa 285mila dollari a 6 milioni), sembra inutile: il sistema è al collasso da anni.
L’operazione Petro
Nell’operazione, rispetto al passato, c’è anche un esperimento di finanzia ipercreativa: il nuovo bolívar è ancorato anche al Petro, la criptovaluta nazionale che, come si spiegava, dovrebbe essere garantita dalle riserve petrolifere e minerarie. Un petro equivale a un barile di petrolio (cioè a 60 dollari o 3.600 bolivare sovrani) che ovviamente è a sua volta legato alle quotazioni del greggio. Altre misure lanciate da Maduro, che governa per decreto o elezioni truccate come quelle dello scorso maggio dal 2013, consistono nell’aumento dell’Iva di 4 punti percentuali, dal 12 al 16%, e nello stop ad alcuni sussidi al carburante, per un risparmio governativo di 10 miliardi di dollari l’anno. Infine la banca centrale venezuelana aumenterà la frequenza delle aste in valuta estera. Stime e numeri privi spesso di fondamento, di fonti e di garanzie.
Un passo indietro
La crisi è partita proprio in corrispondenza del montare dell’opposizione a Maduro, intorno al 2014. Deputato, presidente del Parlamento, ministro, vicepresidente e infine delfino di Chavez, che lo aveva già scelto nel 2011. Scomparso il padre del socialismo bolivariano il 5 marzo 2013, il Venezuela è semplicemente passato di mano prima con una presidenza ad interim e poi con nuove elezioni in aprile col 50,7% contro il 48,9% dello sfidante Henrique Capriles Radonski. Le proteste popolari sono decollate fin dalla seconda metà di quell’anno, sostenute da una quantità di ragioni, dalle condizioni economiche già in fase di peggioramento alle continue violazioni costituzionali – come con le “leggi abilitanti”, approvate dal presidente senza passare per l’Assemblea nazionale – passando per il totale controllo dei mezzi di comunicazione e alla propaganda martellante con dirette tv fiume che accusava e accusa a turno il “golpe continuo”, i complotti dei servizi segreti esteri e mille altre questioni. Coprendo torture, assassini, detenzione arbitraria, violazione di domicilio e processi di civili ai tribunali militari per ragioni politiche, come lo accusava l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Díaz di fronte alla Corte Suprema, poi fuggita dal Paese.
Ciononostante, sconfitto alle elezioni parlamentari del 2015, Maduro ha definitivamente stuprato l’ordine democratico convocando nuove elezioni per un’Assemblea costituente dello scorso anno che ha esautorato il Parlamento: dall’anno scorso questa sorta di “consiglio dei ministri” allargato alle dipendenze del 55enne dittatore decide su ordine pubblico, sicurezza nazionale, diritti umani, sistema socio-economico e finanze.