Viaggio in Francia per scoprire dove la tecnologia sta cambiando l’industria. Quella di frontiera del più grande spazio al mondo dedicato alle startup. E quella consolidata del più grande marchio di cosmetica al mondo: L’Oréal
C’è un silenzio quasi irreale quando entro a Station F: è un giorno particolare, mi spiegano, sono fortunato a vederla così vuota perché normalmente quei pur enormi corridoi – che corrono lungo tutta la navata centrale di quella che è stata una vera stazione ferroviaria – sono decisamente trafficati. In un singolo colpo d’occhio vedo uno accanto all’altro alcuni dei marchi più conosciuti del mondo della tecnologia: qui c’è Google, di fronte c’è Apple, poco più in là c’è Microsoft e subito dopo Amazon e Facebook. Sono tutti riuniti in quella che è un’iniziativa privata ma che gode, senza alcun dubbio, del sostegno incondizionato del Governo francese: che, in modo molto pratico, guarda a cosa i grandi marchi di Silicon Valley (e non solo) possono offrire alla sua industria. E al suo ecosistema di innovazione con una spiccata vocazione tecnologica: e guai a pensare che si tratti solo di bit e silicio.
Chi c’è a Station F
Nella vecchia stazione di Austerlitz ci sono decine e decine di startup residenti: sono “ospitate” (per così dire) all’interno di programmi di incubazione verticali guidati ciascuno da una grande azienda. Il concetto di open innovation si incarna qui concretamente in un rapporto 1-to-1 tra grande e piccolo: se fai videogiochi c’è Ubisoft, se fai servizi e software hai l’imbarazzo della scelta tra i già citati marchi come Microsoft, Google, Apple, OVH e AWS (tra l’altro: quella di Apple è praticamente una presenza unica al mondo, che fa coppia con l’Academy napoletana). Ma Station F non è soltanto tecnologia: c’è anche altro, come dimostra Big Mamma che gestisce il ristorante del complesso (La Felicità), Adidas che si occupa di tecnologia per lo sport, oppure ancora Thales per la cybersecurity. E c’è un angolo dove L’Oréal porta avanti uno dei propri programmi di incubazione di startup, all’interno del suo Beauty Tech Atelier.
Così accanto a chi sviluppa software b2b c’è anche spazio per chi sta pensando a come costruire un modello di business sostenibile per creare cosmetici con le banane (Kadalys) chi crea essenze personalizzate per i millennial (Sillages Paris), chi tiene i cosmetici a temperatura ideale grazie a un frigo apposito (Beautigloo), chi lavora all’economia circolare del caffé per creare ingredienti utili alla creazione di cosmetici (Kaffe Bueno). C’è anche un caso, davvero raro, di una startup statunitense che ha deciso di traslocare a Parigi per cogliere un’opportunità: Quanogen. Sono tutte realtà che hanno le proprie postazioni all’interno dello spazio L’Oréal, che possono usare le sale riunioni e organizzare meeting con i tecnici dell’azienda francese e con quelli di qualsiasi altro gruppo presente o che si renda disponibile, creando le connessioni che serviranno ad accelerare la fase di definizione e ottimizzazione del processo produttivo che le riguarda.
“Per noi significa restare in contatto diretto con l’avanguardia dell’innovazione – mi spiega Camille Kroely, che a Station F è di casa visto che vi ha preso residenza sin dall’inizio e che proprio grazie a questo è diventata responsabile per open innovation e digital services factory di L’Oréal – Per loro, per le startup, significa invece avere accesso a preziose risorse in fatto di mentorship in settori strategici come il marketing o l’industrializzazione dei processi”. C’è un autentico scambio di conoscenza tra le due dimensioni: come detto il modello Station F non è mirato all’acquisizione di equity, bensì all’offrire l’opportunità alle startup di scovare una scorciatoia per crescere e scalare rapidamente – o per rivedere il proprio modello, al limite anche abbandonarlo, con un rischio ridotto al minimo.
“Non escludiamo la possibilità di investire, se ha senso in relazione al nostro business: ma non siamo qui per questo, il nostro obiettivo è quello di offrire un contributo all’ecosistema e di ricevere in cambio un punto di vista unico e originale su dove sta andando il mercato” aggiunge Kroely. Nei fatti c’è solo una startup, tra le 11 attualmente ospitate nell’incubatore L’Oréal, ad essere partecipata: è proprio Sillages Paris, e non è un caso. A parte il suo vulcanico founder Maxime Garcia-Janin (se mai aveste qualche dubbio sul futuro dell’e-commerce, parlate con lui: ha davvero le idee chiare), è una naturale estensione del modello di business della multinazionale: non si sovrappone con i suoi canali tipici di vendita, si rivolge a un pubblico nuovo, esplora un meccanismo di personalizzazione e produzione on demand che oggi è sfruttato solo in parte nelle fabbriche votate all’economia di scala, ma che di fatto sarà il futuro dell’industria.
Com’è fatta Station F
Non è ben chiaro se sia davvero, questo, il più grande spazio al mondo dedicato alle startup: chi ci accoglie lo dice senza calcare la mano, ma non è davvero questo che conta probabilmente. Innanzi tutto ci dicono di lasciare fuori dalla porta i pregiudizi: a Station F si parla inglese praticamente sempre, visto che è la lingua ufficiale per tutti, e vige una sorta di patto non scritto in cui non esiste una compartimentazione della conoscenza e delle competenze. L’idea che vede riuniti in un solo edificio i giganti e le imprese neonate è legata al concetto stesso di condivisione e integrazione: tutto quanto può servire è a pochi passi di distanza, se non c’è troveremo il modo di farlo arrivare.
Station F si divide in tre blocchi: l’ingresso principale è in quella che è la parte che viene definita “pubblica”, dove si possono prenotare le sale per incontrare le aziende residenti o dove si possono organizzare riunioni in un contesto molto diverso da quello tradizionale. C’è spazio per un piccolo anfiteatro e ci sono un altro paio di sale conferenze: qui molto spesso vengono organizzati eventi ad accessi libero. Il tutto inframezzato da opere d’arte moderna: il fondatore di Station F, quel Xavier Niel che ha fondato Iliad, è un appassionato collezionista.
Il blocco successivo è quello dedicato alle startup: sono tutte inquadrate all’interno di programmi guidati da una grande azienda (ce ne sono di ogni tipo), con la quale condividono un piano comune di incubazione che prevede un supporto fattivo fatto di mentorship e quasi mai un investimento diretto. Quest’ultimo può esserci, ma di solito è una conseguenza: l’idea principale di Station F è di offrire un luogo dove semplificare la vita a chi vuole aprire una nuova impresa, risolvendo le beghe burocratiche e offrendo al contempo una assistenza pratica in materie come marketing, finance o tutti quegli aspetti della gestione di un’impresa che sono indispensabili ma che spesso difettano alle startup.
Infine c’è il blocco-ristorante: è gestito da una startup francese che ha scelto come missione portare il cibo italiano oltralpe. Qui è tutto a tema Belpaese, dai nomi dei locali a quelli dei piatti, con una scelta molto ampia che spazia dalla colazione alla cena (serate danzanti comprese). È anche l’unica parte di Station F ad accesso totalmente libero: gli altri due blocchi sono soggetti a un rigido protocollo, così da evitare che gli spazi possano essere occupati da semplici curiosi o che le startup possano venire disturbate nel loro lavoro di tutti i giorni.
L’innovazione oltre Alan Turing numero 5
Se state pensando di fare un salto a visitare Station F, sappiate che l’indirizzo corretto è Parvis Alan Turing 5: il nome non potrebbe essere più azzeccato, anche da questi piccoli particolari si vede l’impegno di chi sta provando a creare qualcosa di diverso dal solito per il Vecchio Continente. Ci siamo abituati a guardare alla California, a Silicon Valley, e magari all’Asia che corre con Cina e India in testa per guardare all’innovazione: ci siamo abituati a pensare che tutto quanto è innovativo e moderno debba per forza di cose arrivare da lì, dove l’economia digitale e l’ecosistema dell’innovazione sono più robusti che mai. Così ci siamo abituati a pensare.
Eppure le leggi del mercato e del digitale sono le stesse in tutto il mondo: non c’è nessuno che possa pensare, oggi, di fare a meno dei nuovi strumenti e delle nuove tecnologie per affrontare un mercato di consumatori iper-connessi. Lo abbiamo capito tutti, ma quanti hanno iniziato realmente a rimboccarsi le maniche per affrontare la questione? La risposta arriva appena varcate le Alpi: se da noi stiamo ancora ragionando di super e iper-ammortamento per l’industria 4.0, la Francia ci è un passo avanti per quanto attiene il disegno complessivo del futuro della sua industria. Piccola, media e multinazionale. Per questo hanno dato vita a Viva Technology, una fiera che punta a fare concorrenza a mostri sacri affermati come Mobile World Congress e CES di Las Vegas, con la benedizione e l’incoraggiamento del Governo.
Ma neppure il settore privato sta a guardare. La presenza robusta delle aziende francesi a VivaTech è significativa, così come è evidente lo sforzo votato all’innovazione. Appena fuori dall’area metropolitana di Parigi vado a visitare due impianti di L’Oréal: non è la prima volta che scrivo del lavoro dell’azienda di Clichy in chiave hi-tech, ma questa volta sono andato fino a monte della catena. A Lassigny c’è uno stabilimento “ultra-connesso” che incarna appieno lo spirito 4.0: le linee di produzione seguono un metodo di lavoro agile che permette di cambiare produzione in meno di 20 minuti (in alcuni casi bastano meno di 5 minuti) spaziando tra un portfolio di oltre 20 prodotti per linea e con un focus su make-up e profumi.
La fabbrica che produce su grande scala diventa capace di produrre stock su misura, per tirature limitate o per supplire a un picco di domanda: se un’attrice famosa indossa una nuance di rossetto in un film, il rischio di non trovarlo a scaffale viene pressoché azzerato grazie alla possibilità di produrne in quantità con preavviso minimo. Senza contare tutto il lavoro che in questi anni è stato svolto direttamente da L’Oréal, o tramite collaborazioni con partner esterni (non è un caso che a Station F ci sia tra le startup incubate Adalong, che si occupa di social media e UGC), per individuare le tendenze e adattare l’offerta alla domanda. Questo è il futuro dell’industria, di qualsiasi industria: cominciare ad affrontare per tempo questa svolta tecnologica, unita alla ricerca che da anni vede L’Oréal da oltre 30 anni leader per esempio nell’utilizzo di metodi alternativi alla sperimentazione animale, o nella creazione di fabriche “asciutte” (dry factory) che riducono al massimo l’impatto ambientale (lo stabilimento italiano di Settimo Torinese non consuma acqua nel ciclo produttivo, se non quella impiegata nella formulazione stessa dei prodotti), ti pone in una posizione di vantaggio strategico rispetto alla concorrenza.
La tecnologia fai da te
Il mio viaggio alla scoperta della tecnologia francese si conclude in un altro hub di L’Oréal: a Aulnay, una fabbrica storica del marchio, che negli ultimi anni è stata oggetto di una profonda ristrutturazione. E non solo estetica. Eric Wolff, responsabile della qualità per la divisione produttiva del marchio, mi racconta che sono tra i primi a visitare una nuova struttura chiamata MYT: Make Your Technology. “Abbiamo deciso di non voler dipendere totalmente da soluzioni altrui per l’innovazione – mi racconta – volevamo creare un luogo dove i nostri dipendenti, di ogni reparto e di tutto il mondo, potessero portare i propri problemi della vita reale e trovare le soluzioni collaborando con i nostri centri di ricerca, le università e gli studenti, e ovviamente le startup”.
Ma il principio del MYT è differente dal concetto “tradizionale” di open innovation: è una sorta di incubatore interno, dentro cui sono gli stessi dipendenti L’Oréal possono fare una proposta per un prodotto o un servizio da sviluppare e lavorare alle porte di Parigi per 3+6 mesi per provare a trasformare un’idea in realtà. Qui incontro Paolo Armando e Margherita Minchilli, due dipendenti L’Oréal che hanno avuto un’idea. Paolo è un professionista di lunga data, che si occupa di formazione e HR e sta sviluppando nuovi sistemi AR per l’aggiornamento dei dipendenti, mentre Margherità è in azienda da meno di un anno: sta lavorando al MYT da qualche settimana per sviluppare un nuovo sistema di gestione di forniture e ordini per i clienti professionali a mezzo smartphone. L’idea di Margherita punta a essere una soluzione che riunisce dati e informazioni che fino a oggi viaggiavano separati nei diversi strumenti a disposizione delle vendite e della logistica, e che invece così potranno migliorare la gestione di questi processi: un’idea che servirà a migliorare il suo stesso lavoro, e che è già piaciuta ad altre country che non vedono l’ora che si trasformi da prototipo a software reale.
Al MYT si studiano soluzioni per migliorare la produzione: per esempio per ridurre al massimo i lavori ripetitivi in fabbrica, tramite l’impiego di cobots (collaborative robots) che aiutano gli operai sollevandoli da sforzi fisici eccessivi e che sono già presenti negli stabilimenti ma che saranno impiegati sempre di più. Ma sbaglia chi pensa che possano sostituirsi all’uomo: per certe attività, come il controllo qualità dei cosmetici per consistenza e colore, non esiste alcuna macchina capace di sostituirsi alla rapidità e alla precisione dell’occhio umano. La tecnologia però può essere un valido supporto per molte altre attività: per esempio con la realtà virtuale e aumentata si può anticipare l’addestramento all’utilizzo di nuovi macchinari, con la stampa 3D si possono testare confezioni per i prodotti dal disegno ardito o semplicemente più resistenti prima di produrre un lotto da migliaia di flaconi inutilizzabili. “Qui lavoriamo a instillare un mentalità da maker in tutti nostri dipendenti – conclude Wolff al termine del nostro tour – Ed è essenziale farlo qui per poi trasmetterlo a tutti i colleghi a casa: per noi qualità e innovazione sono una ossessione”.