Comprare altre società e creare altri mercati: il Ceo di Applix racconta la sua strategia per crescere. Una via alternativa, ma nata da un uso esemplare dei fondi pubblici per le startup
Qualcuno lo ricorderà. Anno 2000. La Kinder fa il primo esperimento per portare i clienti dall’acquisto di un prodotto reale (gli ovetti) ad una piattaforma virtuale (un sito). Accedendo a MagicKinder e inserendo i codici contenuti nelle sorprese, si poteva giocare online a dei videogiochi. Quei videogiochi erano prodotti da un’azienda modenese, Melazeta, un pezzo di storia del gaming italiano, oggi acquistata da una startup che è uno dei fiori all’occhiello della nostra digital economy. Applix. L’operazione di fatto è un esempio di open innovation, ma al contrario. Non è un’azienda solida e con decenni di storia alla spalle a comprarsi una startup (e la sua cifra di innovazione) ma l’opposto: una startup che per crescere fa operazioni che di merger and acquisition (un’acquisizione) per crescere sul mercato e aggredirne altri. Tre acquisizioni in tre anni, questo è il parziale di Applix. Ed è un caso paradimatico che racconta molto dell’ecosistema italiano, delle sue difficoltà a crescere, e di strade possibili per farlo.
Perché Applix è un caso paradigmatico
di open innovation, al contrario
Claudio Somazzi, 49 anni, ceo e founder di Applix, è uno di quelli che è stato da entrambe le parti della barricata. Investitore prima, imprenditore poi. Uno startupper dai capelli bianchi. Conosce l’ecosistema italiano dalle sue origini. «Una startup deve crescere. Ogni azienda deve crescere» dice. «In un’ecosistema normale, con un buon flusso di capitali da investire, saremmo dovuti crescere a colpi di round di investimento. Ma l’Italia non lo è». Gli investimenti scarseggiano. Nel 2015 sono stati circa un centinaio di milioni, abbiamo scritto. Un piatto di lenticchie se consideriamo gli altri mercati, ma con segnali di crescita.
Tre acquisizioni in tre anni. Applix diventa una holding
E il fatturato sale a 4,3M di euro (+27%)
Cosa si deve fare quindi per crescere? «Noi come Applix abbiamo adottato questa strada. Acquisire altre aziende». Lo hanno fatto con Xorovo nel 2012, di cui è stato rilevato il 51% delle quote. E a dicembre 2014 con beSmart (che fatturava 1.5M). Nati per conquistare il mercato del digital publishing per istituzioni e aziende, ma con una forte propensione al mobile, con le prime due operazioni si era assicurata una grande competenza sul lato sviluppo con Xorovo e l’entrata nel mercato dell’education con beSmart. Melazeta, l’ultima acquisita, apre Applix alle logiche della gamification per aumentare la sua capacità di attrarre utenti sulle piattaforme sviluppate. «E’ la nostra strada per ovviare alla mancanza di investimenti in questo momento in Italia. Cresciamo creandoci altri mercati, comprando aziende che hanno acquisito buona capacità in settori specifici, che noi prendiamo e decliniamo sui nostri». Nuovi mercati, nuove competenze. E un fatturato cresciuto di anno in anno (Applix nasce nel 2010) fino ad arrivare a 4,3 milioni nel 2015. E circa 90 dipendenti dislocati tra Milano e Cagliari.
Un caso assai speciale di soldi pubblici ben investiti
Applix nasce e cresce con il fondo HT per il Mezzogiorno
Il caso di Applix è simbolico anche per un’altra questione calda delle ultime settimane. I fondi pubblici alle startup. Abbiamo raccontato della ricerca dell’Università del Salento che li vedrebbe deleteri, e della risposta di un investitore come Giovanni De Caro che ne ha raccontato l’utilità. Applix non è del tutto non venture backed (finanziata da venture capital) La scalata di Applix nasce con un investimento di Principia, con la spalla del fondo HT per il Mezzogiorno, di 3 milioni di Euro nel 2011 (fino al 2013 è stato il round record in Italia).
Voluto dalla presidenza del consiglio nel 2009 e chiuso 4 anni dopo, si è trattato di una vasta operazione di venture di stato che ha supportato 60 operazioni con circa 160 milioni di euro. Quei 3 milioni hanno permesso ad Applix di fare la prima acquisizione (Xorovo, che nasce come spinoff dell’Università di Cagliari) e di assumere 40 sviluppatori in Sardegna. «Si tratta di un esempio virtuoso di utilizzo di fondi pubblici» dice Somazzi. Non solo perché quei soldi sono andati nella sua azienda «ma perché abbiamo creato molti posti di lavoro, oggi siamo circa novanta e tutto è nato da lì». Primo e unico round di investimento, preziosissimo. Il resto è la strategia di acquisizioni. Ma che una delle eccellenze dell’ecosistema delle startup italiane (in buona compagnia con Mosaicoon, Doveconviene e Moneyfarm) sia nata grazie a quel fondo chiuso nel 2013 dovrebbe far riflettere sull’utilità di un fondo pubblico per le startup, non in maniera dissimile da quanto avviene negli Stati Uniti col fondo Calpers.
Una soluzione sì, ma l’open innovation rimane uno dei pilastri
per far crescere l’ecosistema
Applix ha la sua strada. Cresce, crescerà ancora, aggredirà altri mercati. Ma rimane un dato di fondo. Le sofferenze dell’ecosistema italiano non possono essere ovviate da scelte coraggiose di pochi capitani dell’economia digitale. «All’Italia manca un tessuto industriale. E il lavoro delle startup non è diventare Facebook, ma è di fare un pezzo di innovazione che quando è matura può essere inserita in un contesto a rapida crescita» continua Somazzi. «Noi abbiamo quasi tutti 50 anni e non aveva senso aspettare che accadesse qualcosa, magari un partner industriale nelle nostre filiere che ci acquisisse. A noi per la nostra crescita non rimane che crescere. La nostra crescita passa dalla crescita».
Siamo condannati a crescere. E la crescita non è solo lanci stampa, pitch competition e andarsi a prendere i premi alle fiere.
La ricetta? Per Somazzi c’è già, ed è contenuta in uno dei punti del libro bianco di Enrico Gasperini, fondatore di Digital Magics (dove Somazzi ha lavorato) scomparso lo scorso novembre. Il punto due, per la precisione. Che recita così:
Startup: veicolo di open innovation per le PMI
Introduzione di facilitazioni fiscali per PMI per attività di Open Innovation (acquisto di prodotti/servizi da startup innovative per l’innovazione interna dell’impresa) e rimozione di obblighi di spese amministrative da parte di nuove startup.
Quindi bene quando avviene al contrario. Anche perché con un tessuto industriale italiano fatto di piccole e medie imprese che arrancano nell’economia globale, che siano le startup cresciute a comprarsele invece di aspettare di essere acquisite è anomala quanto auspicabile. Ma non ci sono solo le Pmi, e qualche mossa è attesa anche dalle grandi aziende del paese. «Che senso ha anche per un big player globale andare da società di consulenza a pagare anche mille euro all’ora consulenti quando ci sono startup in Italia che costerebbero molto meno, mettendoci dieci volte la quantità di passione, tempo e impegno? ». Si chiede Somazzi. E almeno il buon senso è dalla sua.
Arcangelo Rociola
@arcamasilum