Una delle citazioni di Michael Jordan è un invito a trovare modi creativi e soluzioni innovative per superare un qualsiasi impedimento. «Gli ostacoli non ti devono necessariamente fermare. Se ti trovi un muro davanti, non tornare indietro arrendendoti. Scopri come saltarlo, farci un buco o girarci intorno».
Jean-Louis Roubira è uno psichiatra infantile di origine francese. Prima di diventare psichiatra, frequenta un corso di matematica per un anno. Ma si rende conto che quella non era la sua strada. Sostiene vari concorsi perché non sa ancora bene cosa voglia fare. Supera quello per diventare insegnante a Montpellier. Nonostante l’insegnamento gli piacesse molto, sente il desiderio di non continuare oltre. Finché non decide di iscriversi a medicina perché, racconta lui stesso, era un modo per curare persone a me vicine. Da qui al suo interesse per la psiche umana il passo è breve.
Da grande appassionato di immagini in tutte le sue forme – dipinti, manifesti pubblicitari, cartoline, foto – usava a scopo terapeutico quelle ritagliate dalle riviste per bambini. Buona parte erano immagini riconducibili alle fiabe di Charles Perrault fatte di un’atmosfera incantata, personaggi iconici, elementi fantastici e scenari incantevoli. Un giorno una di quelle immagini cattura la sua attenzione. Si chiede: «Sarei in grado di descrivere agli altri quello che sto vedendo?».
Descrivere agli altri ciò che stiamo osservando non è sempre così facile. Anche le immagini che creiamo nella nostra mente sono quasi sempre complesse e ricche di dettagli. Ed esprimerle con precisione attraverso il linguaggio può non essere immediato. Nel contesto della comunicazione, chi ascolta potrebbe associare a quelle stesse parole altre immagini. O ancora una parola potrebbe evocare, nell’altro, emozioni negative. Nel raccontare una storia, la nostra o quella di un prodotto o di un servizio, il rischio di essere fraintesi o di cadere in qualche errore di comunicazione è altamente probabile. Uno stesso simbolo, immagine o parola, potrebbe avere per l’altro un diverso significato. Se poi dobbiamo tradurre quell’immagine o parola in un’altra lingua e adattarla a un contesto culturale diverso, gli epic fail sono dietro l’angolo. Ne sanno qualcosa i reparti marketing e comunicazione di numerose aziende. Ne sa qualcosa Dolce e Gabbana con la sua campagna pubblicitaria #DGLovesChina che si è trasformata in uno tsunami mediatico e in un caso diplomatico.
Un muro? Saltalo, abbattilo o aggiralo
Roubira però pensa che questa possibilità di fraintendimento sia un’opportunità per conoscersi e per dialogare tra amici, in famiglia, tra colleghi. Da qui nasce l’idea di un board game. E’ solo dopo 6 anni, numerosi prototipi e altrettante serate di gioco tra amici che Dixit vide la luce. Un gioco di carte il cui scopo è cercare di far capire l’immagine scelta – attraverso una frase, una citazione o una singola parola- ad almeno uno degli altri giocatori, ma non a tutti i giocatori. Ogni carta del mazzo contiene un’immagine surreale, complessa e, spesso, ambivalente. Purtroppo la fortuna non sorride al gioco. Nessuna casa di produzione dà credito al suo inventore perché per alcuni il gioco è troppo astratto, per altri troppo intellettuale. Riusciranno i giocatori a raccontare una storia? E poi c’era il problema dei diritti d’autore legati alle illustrazioni oniriche, fiabesche e molto evocative. Ma non tutti gli ostacoli vengono per nuocere.
E così un’amica di Roubira gli presenta Marie Cardouat, un’illustratrice di libri per bambini. Ma neanche questo fortunato incontro convince le case editrici a investire nel progetto. Non trovandone una disponibile, decidono di far nascere una nuova casa editrice La Libellud. Nel 2008 il gioco viene messo sul mercato. Nel 2010 vince lo Spiel des Jahres, uno dei più prestigiosi riconoscimenti nel mondo dei giochi da tavolo. E questo premio è stato il primo di una lunga serie. E dire che nessuno voleva pubblicarlo.
Decisioni giuste figlie di quelle sbagliate?
Roubira è autore di successo di Dixit e Feelings, ma è anche autore di tantissimi altri giochi che non sono stati mai, o almeno non ancora, pubblicati. Il perché lo spiega lo stesso Roubira: «Talvolta non ho perseverato abbastanza, talvolta non ho spinto io abbastanza per farli pubblicare. Sono una persona che passa rapidamente ad altro, quindi molti dei miei prototipi rimangono nel cassetto. Cerco un editore solo quando le persone intorno a me credono molto in un prototipo».
Mancanza di perseveranza, difficoltà di mantenere il focus, mancanza di fiducia o playtest effettuati su un campione troppo ristretto di persone, sono alcuni degli errori che possono portare al fallimento di un’idea, di un progetto, di una start up. E se è vero che occorre trovare un equilibrio tra perseveranza e discernimento nell’investire tempo e risorse nella realizzazione di prototipi, ogni regola ha le sue eccezioni. Forse questo suo metodo creativo di produzione è anche il segreto del suo successo.
Una questione interessante è quella del titolo professionale. Si può definire autore di giochi chi ne ha fatti solo due, ma di successo? Posso definirmi imprenditore se non ho ancora realizzato un prodotto? O scrittore se non ho ancora pubblicato un libro ma ne ho scritti tanti? E’ lo stesso Roubiera a rispondere: Dipende da come si definisce un autore. È qualcuno che crea molti giochi e li fa pubblicare come autore già famoso? O qualcuno che ha molte idee ma non necessariamente le porta a termine? Roubiera pensa di rientrare nel secondo caso. «Sono un autore che produce molto pochi giochi finiti, ma un’enormità, oltre 100, di giochi non finiti!».
Ma indipendentemente dai titoli che ci attribuiamo o che ci attribuiscono gli altri (imprenditore, autore, creatore) ciò che importa è fare, osare, commettere errori, tentare ancora. Uno dei prototipi di Roubiera sta per essere pubblicato. Da una casa editrice famosa? No, una nuova casa editrice nascerà appositamente per questo gioco. A volte la storia di ripete. Sarà anche questa volta un successo inaspettato?
Le 3 regole d’oro
La prima regola è ricordarsi che ogni nostra scelta comporta un margine di errore e ogni decisione è in fondo una scommessa che non dà certezze. Ma chi innova davvero sa che nella complessità non vi è certezza e che il potere dell’errore è più grande di qualsiasi cattiva decisione. La seconda regola è prototipare e valutare la possibilità di non lavorare su un unico prototipo. Considerare l’opportunità di sviluppare prototipi più piccoli per poi testarli rapidamente sul mercato. Se un prototipo sembra promettente, continuare a iterare per migliorarlo sulla base dei feedback ricevuti. La terza regola è rischiare. E tra il fare e non fare accettare sempre la possibilità che il fare si riveli uno “sfortunato” inciampo.
E voi che lezione avete appreso? Se volete raccontarmi la vostra storia di fallimenti e lezioni apprese, scrivetemi qui: redazione -chiocciola – startupitalia.eu