Di che cosa sono fatte le sostanze che entrano in contatto con il cibo che mangiamo? Tra storia e innovazione, le ricerche si concentrano su come migliorare la sicurezza alimentare e la tracciabilità, ma altrettanto importante è conoscere le origini dei principali materiali che arrivano in cucina. Lo spiega a StartupItalia Devis Bellucci, ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali
Bottiglie di vetro, pellicole di plastica, fogli di carta, vaschette di alluminio, contenitori ed imballaggi vari per il trasporto e la conservazione dei cibi: quando si parla di sicurezza alimentare, non contano solo l’origine degli ingredienti e i processi produttivi, ma anche i materiali che accompagnano ciò che mangiamo durante l’intero percorso che arriva fino alla nostra tavola.
Mentre l’adeguatezza dei cosiddetti MOCA (Materiali e Oggetti a Contatto con Alimenti) è tema di grande attenzione sul piano legislativo, attraverso una serie di rigorosi standard da rispettare, la scienza è alla continua ricerca di nuove invenzioni, che siano rispettose delle persone e anche dell’ambiente, come dimostrano le numerose startup italiane ed internazionali attive in questo campo.
Qualche esempio? Beeopak è una pellicola in cotone biologico, imbevuta con una preziosa miscela dalle proprietà traspiranti e antibatteriche, composta da cera d’api, olio di nocciole IGP piemontesi e resina di pino. Ooho, invece, è un’alternativa alla plastica prodotta da Notpla con le alghe: non solo biodegradabile, è anche commestibile. Così come si può mangiare il packaging a base di proteine di piselli ideato dall’inglese Gousto, mentre l’italiana Packtin realizza gel e coating biodegradabili, pure edibili, che permettono una maggiore conservazione degli alimenti e un prolungamento della shelf-life, bloccando per esempio l’ossidazione della frutta pronta da mangiare.
Materiali per il packaging: storie e composizione
Come sono nati, invece, i principali materiali che utilizziamo oggi? Conoscere le loro storie affascinanti vuol dire anche acquisire nuova consapevolezza, andando oltre la semplice curiosità. Le racconta in questa intervista a StartupItalia Devis Bellucci, ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali presso il Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ed autore di vari libri di taglio divulgativo, tra cui Perché la forchetta non sa di niente? E altre domande curiose per capire la scienza senza uscire di casa, in libreria per Rizzoli, e Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo (Bollati Boringhieri editore).
La fiaba di Serendippo sulle scoperte scientifiche
“La scienza dei materiali è ricca di storie, che la rendono tutt’altro che arida”, assicura Devis Bellucci. Tutto inizia con l’antica fiaba persiana dei tre principi di Serendippo: “Un giorno il re dell’attuale Sri Lanka, Giaffer, spedisce i figli a conoscere il mondo oltre i confini del regno, per imparare quello che non si può apprendere dai libri”. Durante questo viaggio di iniziazione il trio scopre un sacco di cose che non stavano assolutamente cercando: “Da qui deriva la celebre parola serendipità, che nella scienza indica la capacità di un ricercatore di rilevare ed interpretare correttamente un fenomeno avvenuto in maniera casuale durante esperimenti finalizzati ad altro. Così è successo in tante scoperte scientifiche, come quella della penicillina, che in realtà non avvengono mai del tutto per caso. La fortuna, come diceva Pasteur, “favorisce solo le menti preparate”. Per essere rivelatrice, quindi, ogni anomalia rispetto ai dati attesi deve capitare sotto l’occhio di uno scienziato attento, creativo e duttile, altrimenti è molto probabile che essa finisca semplicemente nel cestino, liquidata come esperimento venuto male”.
La serendipità nella scienza indica la capacità di un ricercatore di rilevare ed interpretare correttamente un fenomeno avvenuto in maniera casuale durante esperimenti finalizzati ad altro
Durante il Novecento la scienza dei materiali ha conosciuto un forte sviluppo, con la messa a punto di nuovi prodotti che magari erano stati pensati per tutt’altro, ma poi hanno trovato impiego anche in ambito alimentare, nel packaging e, più in generale, nelle nostre cucine. Come il silicone, flessibile e resistente alle alte temperature, usato per produrre stampi e pirottini per dolci e muffin, oppure per rivestire certe carte da forno, perfette per la panificazione e la pasticceria.
Poi c’è il teflon, nome commerciale del politetrafluoroetilene, una plastica estremamente liscia, utilizzata dagli Anni Cinquanta per produrre padelle antiaderenti: “La sua scoperta è un classico esempio di serendipità, visto che il materiale venne sintetizzato per caso, cercando di mettere a punto un fluido refrigerante da usare nei frigoriferi. Poi ci sono i metalli, impiegati per le scatolette, le lattine delle bibite o banalmente le posate. Come sappiamo, cucchiai, coltelli e forchette sono fatti di acciaio inossidabile, un metallo durevole (non si ossida) e diciamo pure insapore”.
Non una sola plastica, ma una vasta gamma di plastiche diverse
La plastica è uno dei materiali più diffusi ed economici, ma questo termine non si indica un solo materiale, bensì una vasta gamma di materiali sintetici e organici costituiti da molecole molto grandi: “I polimeri sono lunghissime catene di atomi dove l’elemento dominante è il carbonio. Possiamo immaginarli come una collana di perle: anche in questo caso abbiamo a che fare con un’unità molecolare di base, detta monomero, che si ripete. La grande versatilità dei materiali plastici e l’ampia carrellata delle loro proprietà derivano dalla varietà di polimeri in gioco, dalla loro configurazione nello spazio e dal fatto che ai lati della molecola principale – una specie di colonna vertebrale – possono legarsi altri gruppi chimici, capaci di conferire al prodotto una determinata caratteristica”.
La grande versatilità dei materiali plastici e l’ampia carrellata delle loro proprietà derivano dalla varietà di polimeri in gioco
Sono diverse le plastiche impiegate in ambito alimentare: come accorgersene? “Basta prendere una bottiglia di acqua minerale e leggere l’etichetta: si noterà la presenza di loghi di forma triangolare composti da tre frecce, con dei codici (lettere e numeri da 1 a 7). Leggeremo, ad esempio, le sigle PET per il corpo della bottiglia e PE-HD per il tappo. Si tratta, rispettivamente, di Polietilene tereftalato (PET) e di Polietilene ad alta densità (PE-HD). Sono plastiche diffusissime. Il PE-HD, liscio e resistente, è usato anche per fare taglieri (quelli bianchi “di plastica”, appunto). Un’altra plastica molto come la troverete sotto il codice PP: è il polipropilene, sintetizzato grazie allo scienziato italiano Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963”.
Vuoto a rendere o vuoto a perdere?
Quello “dal vuoto a rendere al vuoto a perdere” è stato un vero cambio di paradigma, che qualcuno fa idealmente risalire all’impiego della plastica per la realizzazione delle bottiglie, che andò via via a sostituire il vetro, soprattutto nel caso di acqua e bibite.
“Anche qui c’è un aneddoto curioso”, sottolinea Bellucci. “All’inizio degli anni ’70 l’ingegnere americano Nathaniel Wyeth si chiese perché usassero sempre il vetro per le bottiglie delle bibite gassate. Una sera che era in vena di esperimenti riempì di soda un flacone di detersivo vuoto e lo lasciò in frigo, giusto per vedere che cosa sarebbe successo. Quel flacone, purtroppo, era fatto di polipropilene. Il giorno dopo era esploso, facendo un macello. Così, l’ingegnere capì che forse era necessaria una plastica più resistente. Ne provò diverse, finché la sua scelta cadde sul PET e nel 1973 Wyeth ne inaugurò l’uso alimentare con un brevetto”.
Cibo in scatola per i soldati di Napoleone
Un momento storico è rappresento dall’invenzione del cibo in scatola, che deriva da tecnologie per uso militare: “In passato garantire i rifornimenti agli eserciti era un sfida. Se ne preoccupava anche Napoleone, che offrì una ricompensa di 12.000 franchi a chi avesse trovato un modo per conservare il cibo dei suoi soldati”. Ci riuscì Nicolas Appert, un giovane chef che sfruttò un particolare metodo di cottura in bottiglie di vetro sigillate. “Funzionava, anche se non si sapeva bene il perché, dato che le scoperte di Pasteur sui batteri erano ancora lontane. Le cronache dell’epoca riportano lo stupore dei marinai nel vedere, meglio ancora nel sentire, che dopo quattro mesi di viaggio in mare nessuna delle pietanze – né le verdure, né le pernici, né il sugo – aveva subito il benché minimo cambiamento. In seguito, arrivarono le scatolette in banda stagnata, che avevano il vantaggio di non essere fragili come i contenitori di vetro. Il bello è che prima vennero inventate le scatolette e solo dopo l’apriscatole. Per l’apertura bisognava quindi ingegnarsi con scalpelli e baionette”.
Cellophane, Tetra Pak®, carta stagnola
L’intuizione del cellophane nacque invece durante una cena al ristorante dell’ingegnere svizzero Jacques E. Brandenberger: “Mentre un cameriere puliva il vino rovesciato sulla tovaglia, gli balenò l’idea di inventare un materiale trasparente e flessibile per rendere impermeabili i tessuti. Ne sperimentò diversi, tra cui un particolare tipo di viscosa, un derivato della cellulosa, che però rese la stoffa troppo rigida. Tuttavia, egli notò che il rivestimento si spellava in una pellicola trasparente e duttile che poteva avere altre applicazioni. Il nome cellophane venne coniato dal suo stesso scopritore, unendo le parole “cellulosa” e “diaphane”, ossia diafano, trasparente. Per vedere sbarcare la pellicola in campo alimentare bisognerà però aspettare dal 1908 agli Anni Cinquanta”.
Anche quella del Tetra Pak® fu una vera rivoluzione: “Questo speciale tipo di confezione risale al 1952 e viene prodotto dall’omonima ditta svedese, fondata da Ruben Rausing. Il primo esperimento fu una confezione per la panna con la forma di un tetraedro, da cui il nome, poi arrivò quella per il latte. Fino ad allora si conservava il latte nelle bottiglie di vetro, fragili e scomode da stivare nei furgoni per la distribuzione. In più, si conservava poco”. Il Tetra Pak®, leggero e resistente, è impermeabile all’aria, oltre che ai liquidi, e non lascia passare la luce. Da un punto di vista del materiale, si tratta di un poliaccoppiato, ossia è costituito da più strati: generalmente carta, polietilene (una plastica) e alluminio.
Prima del Tetra Pak® il latte nelle bottiglie di vetro, fragili e scomode da stivare nei furgoni per la distribuzione. In più, si conservava poco
Infine, a dispetto del nome, la carta stagnola è fatta di alluminio. Perché ha un lato lucido e uno opaco?, si chiedono in molti. “Questione di tecnologia produttiva”, conclude Bellucci. “I fogli di alluminio vengono pressati fino allo spessore desiderato facendoli passare attraverso due rulli d’acciaio. Tipicamente, si pressano due fogli alla volta, disposti uno sull’altro, così ognuno ha un lato rivolto verso il rullo d’acciaio, che lo lucida a specchio, e l’altro rivolto verso il foglio gemello. Questa seconda faccia, a contatto con l’alluminio durante la pressatura, risulta un po’ più ruvida, quindi opaca”.