Lavora nel mondo del Fintech da 24 anni ed è speaker, mentor, investitore, autore di libri e docente. Per la rubrica Italiani dell’altro mondo, Alessandro Hatami ci racconta la sua visione della banca del futuro: per lui assomiglierà a Spotify, la nota piattaforma musicale. Ecco perché
Co-fondatore e managing partner di Pacemakers.io, società specializzata nella trasformazione digitale di pagamenti, servizi finanziari e organizzazioni bancarie, Alessandro Hatami si occupa di Fintech da 24 anni. Advisor, speaker, mentor e investitore nel settore dell’innovazione digitale e, appunto, del Fintech, è co-autore, con Helene Panzarino di “Reinventare le banche e la finanza. Il fintech e la trasformazione globale dei servizi finanziari“, edito da Franco Angeli. Un volume uscito prima in inglese e in cinese, e ora anche in italiano. Hatami vanta una profonda conoscenza del settore, essendo stato direttamente impegnato nella trasformazione di grandi banche, nell’incubazione di fintech innovative e come docente in Università quali l’Imperial College e la London Business School. Lo abbiamo intercettato durante una sua breve permanenza nel capoluogo lombardo per farci spiegare come è nata l’analogia da lui proposta tra Spotify e il settore bancario e come saranno, dal suo punto di vista, le banche del futuro.
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Che cosa intende per “Spotify del settore bancario”?
Come accadde al termine degli anni ’90, quando il digitale soppiantò i vecchi dischi musicali e, successivamente, vide la nascita delle più note piattaforme come iTunes e Spotify, la stessa cosa sta avvenendo nel sistema bancario. Le vecchie filiali, oramai scomparse in diverse piccole zone anche d’Italia, sono sostituite da app che offrono una versione digitale del proprio conto corrente. Nel caso del settore musicale, Spotify ha completamente trasformato il modello operativo sino ad allora esistente: se fino a quel momento gli artisti avevano avuto bisogno di una casa discografica per vendere i propri brani, adesso questo passaggio non è più necessario perché è la stessa Spotify a dare la possibilità ai musicisti di farsi conoscere. Nel settore del digital banking, negli ultimi 20 anni sta accadendo la stessa cosa. Stiamo attraversando tre distinte fasi di cambiamento: l’adattamento, l’evoluzione e la trasformazione.
Secondo lei, le app riescono ad assolvere a tutti i bisogni dei richiedenti?
Secondo me, attualmente, assolvono a certi bisogni primari. Prendiamo il caso del conto corrente: sull’app tu puoi vedere il saldo, i movimenti, effettuare bonifici, conoscere le offerte proposte dalla tua banca. Ma se hai bisogno di una consulenza, ad esempio, per aprire un mutuo o per ottenere un finanziamento, difficilmente la farai online. C’è ancora l’idea che per certi tipi di bisogni sia necessario il confronto con un professionista dal vivo. Si tratta di un rapporto che si basa su un semplice pilastro: la fiducia.
La banca del futuro come sarà?
Qualcosa di assolutamente nuovo, che già oggi sta cambiando. Stiamo, infatti, preparando il terreno giusto per la banca del domani e non crediamo di essere indietro rispetto ad altri Paesi. I prossimi passi da compiere sono quelli di costruire un ecosistema ancora più grande attorno al settore del Fintech in Italia e innovare, ad esempio tramite l’adozione di piattaforme in cloud. Ma non solo: anche i regulator devono invertire la tendenza e capire che mostrare avversità verso la trasformazione che è già in atto non servirà a niente se non a rimanere indietro rispetto a chi, invece, riuscirà a invertire la rotta. In questa grande mutazione, l’interazione tra enti diviene centrale, così come le collaborazioni con le Università, l’attrazione di venture capitalist e una più ampia possibilità di accesso al capitale.
Secondo lei come sarebbe la banca perfetta? E quanto siamo lontani dal realizzarla?
Lo “Spotify bancario” è ancora in una fase embrionale. I primi prototipi di questo modello sarebbero già in gestazione e probabilmente verranno inizialmente offerti in lingua cinese. L’adozione del digital banking sta, in effetti, avvenendo in modalità diverse a seconda delle esigenze, delle culture e delle caratteristiche dei vari mercati. Questi diversi modelli operativi nel libro sono definiti le “tribù del fintech” e includono le Bank Challenger (prevalenti in Europa), i Payment Innovators (soprattutto negli USA), i Champions of the Unbanked (nei Paesi in via di sviluppo), le Social Banks (prevalentemente in Asia) e gli Infrastructure Builders (concentrati nei Paesi con capacità avanzate di data analytics).
In questo senso, Milano fa da pioniera in Italia?
Milano è già adesso un grande hub e un punto di riferimento per la finanza non solo italiano, ma europeo. Questo grazie alla presenza di banche e di soggetti che hanno individuato le potenzialità del Fintech. Inoltre, le Università sono parte attiva nell’innovazione del settore e i venture capitalist guardano con grande attenzione a quello che accade a Milano anche perché c’è una spinta verso la globalizzazione.
Su cosa ci si deve concentrare, quindi, nei prossimi anni?
Sicuramente sulla messa a punto di sistemi di cybesecurity ancora più validi e migliori di quelli che attualmente abbiamo a disposizione. La sicurezza nel web sarà un aspetto centrale anche nei prossimi anni, così come investire in risorse umane e conoscere il cliente a fondo, verso un approccio sempre più personalizzato. Infine, studiare ancora meglio come ottimizzare le risorse a disposizione.
Quanto accaduto con SVB in Silicon Valley potrebbe succedere anche in Italia?
No, sia perché non esiste una SVB italiana sia per il fatto che le regolamentazioni a cui attenersi sono completamente diverse rispetto a quelle che interessavano SVB. Si è trattato, prima di tutto, di un caso di malagestione avvenuto a più livelli.