In genere la banca centrale non interviene direttamente nel settore imprenditoriale; mira invece a influenzare le imprese indirettamente, attraverso le banche. In tempi di crisi, le banche potrebbero aumentare il capitale proprio per concedere più prestiti mantenendo i requisiti patrimoniali. Tuttavia, nella pratica, le banche non aumentano il capitale durante le recessioni, in parte proprio perché i prezzi delle azioni sono depressi.
In effetti, nel 2020 i titoli bancari sono stati tra i maggiori perdenti del mercato azionario, il che ha complicato i loro tentativi di raccogliere ulteriori capitali. È inoltre probabile che gli azionisti si oppongano agli aumenti di capitale che hanno l’effetto di diluire il peso delle loro partecipazioni. Di conseguenza, potrebbero essere necessarie altre forme di sostegno diretto alle imprese.
Il ruolo delle bance centrali nelle crisi
È stato proposto che la banca centrale fornisca un sostegno diretto alle imprese e non solo indiretto attraverso il settore bancario. Tuttavia, di fronte al rischio di un problema di sovraccarico del debito di lunga durata, la sfida consiste nel fornire sostegno alle imprese senza amplificare tale problema. La concessione di prestiti addizionali alle imprese non soddisfa questo criterio, perché ne aggrava ulteriormente l’indebitamento.
Gli interventi devono invece prevedere apporti di capitale proprio, come sottolineato da Jeremy Stein. La differenza fondamentale tra debito e capitale è che il capitale azionario perde valore in caso di cattiva performance dell’impresa, mentre il debito rimane invariato. A livello microeconomico, la motivazione principale del sostegno alle imprese è preservare le aziende con prospettive di vitalità nel lungo periodo ma con temporanee carenze di liquidità, senza appesantirle con un eccessivo indebitamento. A livello macroeconomico, si ritiene che sia necessario contenere l’amplificazione delle esternalità derivanti dall’acceleratore finanziario, dalle svendite o dalla domanda aggregata.
Jeremy Stein sostiene che la politica potrebbe essere guidata da un «principio di venture capitalist di ultima istanza». In questo caso, i finanziamenti verrebbero erogati in più fasi, a seconda del successo dell’operazione. La banca centrale stabilizzerebbe i bilanci delle imprese in difficoltà. Data la notevole incertezza, i finanziamenti dovrebbero essere resi ampiamente disponibili e con bassa priorità in caso di fallimento, per evitare di appesantire le imprese con debiti ingenti39. In altre parole, le banche centrali dovrebbero detenere debito junior (debito non garantito) più rischioso, o addirittura parte del capitale azionario delle imprese.
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Avventurandosi in questo nuovo territorio la banca centrale deve necessariamente disporre di una chiara visione delle cose. Un venture capitalist di ultima istanza ha il compito di decidere quali imprese devono sopravvivere con la prosecuzione dei finanziamenti e quali invece no. Ciò solleva almeno altri due interrogativi: con quali cadenze va fornito il capitale di rischio? E una volta raggiunti quali punti di non ritorno il finanziamento dovrebbe essere revocato? Anche considerazioni di economia politica avrebbero un peso, in quanto la revoca dei finanziamenti in una fase successiva sarebbe una questione controversa. Il tipo di politica che abbiamo descritto va ben oltre le linee di azione tradizionali della banca centrale e comporta un rischio significativo.
Tuttavia, prevenire l’eccesso di indebitamento attraverso l’acquisizione temporanea di quote azionarie delle imprese garantirebbe a queste ultime una certa resilienza. Uno schema del genere potrebbe essere gestito dal Tesoro, che forse è più adatto di una banca centrale a svolgere questo compito. L’insegnamento principale di questo capitolo è che le banche centrali possono svolgere con forza diversi ruoli che contribuiscono a difendere la resilienza dei mercati finanziari. In qualità di market maker, prestatore, venture capitalist e acquirente di attività, tutte funzioni di ultima istanza, le banche centrali possono svolgere una funzione cruciale nell’assicurare che i mercati finanziari si riprendano, anche dopo gravi perturbazioni come la crisi del Covid.
Tuttavia, così facendo, le banche centrali assumono su di sé rischi significativi, anche di natura politica. Tutto ciò potrebbe andare ben oltre il loro mandato istituzionale. 4. La politica monetaria oltre la regola di Taylor Negli anni Novanta, nelle economie avanzate, la definizione degli obiettivi di inflazione si è affermata come approccio standard alla politica monetaria. La banca centrale poteva fissare il tasso di interesse per raggiungere il proprio obiettivo in termini di inflazione, in relazione all’andamento dell’inflazione e dell’output gap.
Quando l’inflazione superava l’obiettivo, o la produzione superava il potenziale di piena capacità dell’economia (output gap positivo), il rimedio prescritto era aumentare i tassi di interesse. D’altro canto, in un periodo di bassa inflazione o di recessione con un output gap negativo, la banca centrale poteva ridurre i tassi di interesse.
A questa meccanica regola di Taylor, appena un po’ più complessa di quanto sopra descritto nell’attuazione pratica, si sono conformate le banche centrali fino alla crisi finanziaria del 2008. Secondo l’economia keynesiana è necessario raggiungere un compromesso tra inflazione e disoccupazione. Le teorie keynesiane sottolineano che, almeno nel breve periodo, la riduzione della disoccupazione può essere ottenuta stimolando l’inflazione. Questa relazione negativa tra inflazione e disoccupazione è chiamata «curva di Phillips».
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Se una politica monetaria espansiva con bassi tassi di interesse stimola la domanda aggregata attraverso un aumento dei consumi, sarà necessario assumere più lavoratori. Ciò richiederà un aumento dei salari, a meno che il mercato del lavoro non sia caratterizzato da tassi di disoccupazione estremamente elevati. Finché la banca centrale non aumenta i tassi, la disoccupazione dovrebbe diminuire e l’inflazione aumentare. Pertanto, i decisori politici devono scegliere da che parte stare: preferiscono una bassa inflazione o una bassa disoccupazione?
Dopo il 2000, tuttavia, e più a lungo in Giappone, la curva di Phillips si è notevolmente appiattita. La riduzione della disoccupazione è stata ottenuta senza un aumento dell’inflazione. Ciò ha facilitato la stimolazione del mercato del lavoro, ma ha reso più difficile intervenire sull’inflazione. In molte economie avanzate, alle banche centrali sono assegnati specifici obiettivi in termini di inflazione. L’obiettivo della Federal Reserve statunitense è un tasso di inflazione simmetrico di circa il 2%. Con l’inflazione al 2%, i tassi di interesse nominali sono superiori perché i creditori pretendono che venga scontata l’inflazione. Di conseguenza, c’è ampio margine per ridurre i tassi di interesse nominali prima di raggiungere un tasso pari a zero.
Nell’agosto del 2020 la FED ha annunciato un nuovo obiettivo in termini di inflazione media flessibile al 2%. In questo modo, se in un certo periodo l’inflazione scende troppo, l’obiettivo può essere portato sopra il 2% per raggiungere un tasso medio d’inflazione del 2%. In Europa la BCE si proponeva (fino a qualche tempo fa) un tasso di inflazione di poco inferiore al 2%; nell’estate del 2021 è passata a un obiettivo di inflazione simmetrica di circa il 2%.
L’economista di Harvard Jeremy Stein sottolinea che il persistere di una bassa inflazione nonostante una politica monetaria espansiva su larga scala assomiglia alla situazione di quel medico che aumenta il dosaggio di un farmaco quando la prima somministrazione non produce effetti sul paziente. Il medico potrebbe somministrare una seconda dose e forse una terza, ma l’aumento continuo del dosaggio può avere effetti collaterali. Tra gli effetti collaterali della politica monetaria vi sono, ad esempio, preoccupazioni riguardo alla stabilità finanziaria, in quanto potrebbero prodursi bolle dei prezzi degli asset.
A partire dalla crisi finanziaria del 2008 i governi hanno utilizzato misure di politica monetaria non convenzionali. Ora che queste misure sono entrate nell’uso comune, non è più sufficiente concentrarsi esclusivamente sul tasso di interesse. Le banche centrali oggigiorno sono fortemente coinvolte nella determinazione del prezzo del rischio e degli spread a termine per mezzo degli acquisti di asset su larga scala. Ne consegue la necessità di monitorare i bilanci delle banche centrali e la loro crescita. La gestione di tutti questi strumenti strategici richiede una visione più olistica dell’economia.
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Oltre all’inflazione in eccesso e all’output gap, la banca centrale dovrebbe concentrarsi anche sui rischi fiscali e finanziari. Inoltre deve monitorare il rischio che l’onere del servizio del debito possa improvvisamente aumentare: ricordiamo che la politica monetaria si ripercuote sul costo di rifinanziamento del debito pubblico. Inoltre, la banca centrale deve considerare i cicli di feedback non lineari della politica monetaria e il suo impatto sui costi di finanziamento del debito pubblico. Pertanto, la semplice regola di Taylor deve essere ampliata in termini di input e output economici sottostanti. Una visione allargata della regola di Taylor dovrebbe includere non solo il tasso di interesse, ma anche misure quantitative della moneta e altri strumenti non convenzionali.
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Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro La società resiliente, edito da Il Mulino, di Markus Brunnermeier, insegnante di Economia alla Princeton University, è Direttore del Princeton’s Bendheim Center for Finance e Vice Presidente della American Finance Association. Traduzione di Giovanni Arganese. Edizione italiana a cura di Emanuele Felice.
Markus Brunnermeier è stato consulente del Fondo monetario, della Federal Reserve Bank di New York, della Bundesbank. Di recente ha pubblicato «A Crash Course on Crises: Macroeconomic Concepts for Run-Ups, Collapses, and Recoveries» (Princeton University Press).
Traduzione di Giovanni Arganese. Edizione italiana a cura di Emanuele Felice.