Diverse aziende stanno investendo su sistemi innovativi di ricircolo dell’acqua per spostare gli impianti di acquacoltura dalla costa all’entroterra. Gli obiettivi sono molteplici: ridurre l’inquinamento dei mari dovuto ai reflui degli allevamenti, limitare l’impatto delle malattie che colpiscono i pesci e scongiurarne il rischio di fuga
Se oggi in Italia andassimo nel banco pescheria di un qualsiasi supermercato troveremmo salmone di tutti i tipi: affumicato, inscatolato, a tranci. Questo pesce non appartiene certo alla tradizione culinaria mediterranea, eppure è onnipresente.
Noteremmo inoltre che la quasi totalità di quel salmone proviene da allevamenti – concentrati per lo più in Norvegia, ma presenti in grande quantità anche in Scozia e Cile – che negli anni hanno sollevato non poche questioni dal punto di vista etico e ambientale.
Senza dimenticare poi l’aggiunta di astaxantina, un carotenoide utilizzato dall’industria ittica per “nascondere” il colorito grigiastro tipico della carne del salmone d’allevamento e conferirgli il colore arancio-rosa brillante a cui tutti siamo abituati (tipico invece del salmone selvaggio, che si nutre in natura di gamberetti e altri piccoli crostacei).
Del resto, l’occhio vuole sempre la sua parte, e la grande distribuzione organizzata questo lo sa bene. Tutto ciò potrebbe far storcere il naso a molti, ma la tendenza appare inarrestabile: in generale, mangiamo sempre più pesce allevato e sempre meno pesce pescato. Un bene per la fauna ittica, ma con risvolti negativi su altri fronti.
Il mare non basta più
Da una parte, la pesca industriale ha portato a un depauperamento delle risorse ittiche disponibili nei mari e negli oceani del nostro pianeta. Dall’altra, è il mercato a chiedere una disponibilità continua di determinati prodotti: il salmone per l’appunto, ma anche altri pesci “nobili” come le trote, le orate o i branzini, per non parlare di molluschi (in particolare cozze e vongole) e crostacei (in particolare gamberi e mazzancolle tropicali).
I numeri parlano chiaro. Secondo il rapporto “The State of World Fisheries and Aquaculture” 2020 pubblicato dalla Fao (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), attualmente il 46% di tutto il pesce venduto a livello globale proviene da allevamenti.
L’Asia fa la parte del leone con quasi il 90% dell’acquacoltura mondiale: la Cina è il primo produttore e da sola genera una quantità superiore a quella del resto del mondo. Gli esperti della Fao prevedono che la percentuale di pesce d’allevamento supererà presto quella di pesce catturato in mare, oltrepassando il 60% nel prossimo decennio.
Attenzione, però. L’acquacoltura non è da demonizzare a priori. Anzi, la stessa Fao la considera uno strumento vitale per garantire la sicurezza alimentare globale, soprattutto alla luce della crescita costante della domanda di cibo (secondo le previsioni dell’Onu, nel 2050 sulla Terra ci saranno 9,8 miliardi di persone). Anche per questo è diventato quanto mai urgente discutere su come migliorare il sistema produttivo e renderlo più sostenibile per noi e per il pianeta.
I problemi legati all’acquacoltura sulla costa
Da tempo ormai i metodi di acquacoltura intensivi sono finiti nel mirino delle associazioni animaliste e ambientaliste, che denunciano i danni agli ecosistemi marini e il mancato rispetto degli standard di benessere animale. Pesci boccheggianti, chiusi in spazi sovraffollati e attaccati da pidocchi di mare e altri parassiti: è quanto emerge dai filmati diffusi dall’ong Compassion in World Farming (Ciwf), che tra settembre e novembre 2020 ha condotto un’indagine sotto copertura in una ventina di allevamenti di salmone in Scozia.
Secondo Ciwf, il tasso di mortalità in questi allevamenti può arrivare anche al 25%. In altre parole, un salmone su quattro cresciuto in queste gabbie subacquee rischia di morire ancora prima di essere macellato.
C’è poi il fattore ambientale: l’acquacoltura intensiva inquina le aree costiere con il rilascio delle deiezioni dei pesci e dei residui di antibiotici usati per contrastare le malattie che li colpiscono. Le acque reflue degli allevamenti sono infatti ricche di nitrati e fosfati e l’eccesso di sostanza organica è alla base di quel fenomeno chiamato eutrofizzazione, provoca cioè una proliferazione incontrollata delle alghe all’interno dell’ecosistema locale.
Altro aspetto da non trascurare è il pericolo di fughe di pesci dagli impianti di acquacoltura. Prendiamo sempre il caso dei salmoni. Il salmone atlantico (Salmo salar) è ormai prevalentemente allevato, mentre tra la varietà pescate rimane soltanto quella sockeye (Oncorhynchus nerka), diffusa nel Pacifico settentrionale.
Può capitare che i salmoni d’allevamento sfuggano alle reti di protezione e finiscano per incrociarsi a livello genetico con quelli selvaggi, causandone il declino. Ciò avviene perché – come denuncia anche il documentario “Artifishal” prodotto dal marchio di abbigliamento Patagonia – i salmoni cresciuti in bacini acquatici ad alta densità creati dall’uomo, una volta fuggiti in mare aperto, possono trasmettere malattie a quelli selvatici e variarne il Dna, rendendoli meno adatti alla sopravvivenza in un habitat naturale.
Per quanto riguarda la mitilicoltura, settore in cui l’Italia primeggia a livello europeo, un problema è invece costituito dalla dispersione in mare delle reti (le calze, in gergo tecnico) sulle quali crescono i molluschi. Nella maggior parte dei casi sono realizzate in materiale plastico e, qualora venissero smaltite nella maniera scorretta, andrebbero ad aggravare la piaga del marine litter.
Infine, un accenno va dedicato al lato oscuro degli allevamenti di gamberi. Per fare spazio a questi ultimi, nei Paesi tropicali sono stati spazzati via centinaia di ettari di mangrovie. Si tratta di foreste semi-acquatiche che forniscono dei servizi ecosistemici fondamentali, in quanto, oltre a contribuire all’assorbimento e stoccaggio di anidride carbonica, ospitano una biodiversità ricchissima e rappresentano una difesa naturale contro l’erosione costiera.
Verso un’acquacoltura più sostenibile?
La domanda a questo punto è: come si può provare a limitare tutti questi problemi? Per ridurre l’impatto ambientale dell’acquacoltura sulla costa si sta facendo sempre più strada l’idea di portare a terra gli allevamenti. Ovvero di costruire delle vere e proprie “serre marine”, dove ogni passaggio della catena produttiva, dall’incubazione delle uova fino alla macellazione del pesce adulto, avviene in ambienti rigidamente controllati.
Lo sviluppo dell’acquacoltura in chiave green passa infatti da modelli di nuova concezione per il ricambio e la purificazione dell’acqua. In italiano vengono definiti SAR, ovvero Sistemi di Acquacoltura a Ricircolo (in inglese Recirculating Aquaculture Systems, o RAS). Si tratta per l’appunto di sistemi a circuito chiuso dove l’acqua di gestione, alla fine del suo ciclo, viene filtrata, sterilizzata e poi riutilizzata.
In questo modo è possibile smaltire in sicurezza i rifiuti organici. In un’ottica di economia circolare, le deiezioni dei pesci possono essere riutilizzati sotto forma di fertilizzanti in ambito agricolo, il che significa trasformare uno scarto in una risorsa, una voce di spesa in una possibile fonte di guadagno. Inoltre, con i SAR viene abbattuto il rischio di esposizione ai parassiti presenti in mare e quindi ridotto l’uso di antibiotici negli allevamenti.
Tra i pionieri di questa tecnologia c’è la norvegese Atlantic Sapphire, che ha dato vita all’impianto di acquacoltura terrestre più grande al mondo a pochi chilometri da Miami, in Florida. La struttura, chiamata Bluehouse, ha l’aspetto di un’enorme capannone industriale in cui è collocata una serie di vasche refrigerate che riproducono l’habitat dei fiordi norvegesi o delle highland scozzesi.
Attualmente Bluehouse è in grado di garantire una produzione annua di circa 9.500 tonnellate di salmone atlantico. L’obiettivo dichiarato dall’azienda è quello di portarla a 222 mila tonnellate, arrivando a coprire il 41% della domanda annuale di salmone negli Stati Uniti.
In un’intervista rilasciata alla BBC un anno fa, Ragnar Tveteras, professore di economia all’Università di Stavanger (Norvegia) ha espresso dubbi sulla competitività degli allevamenti terrestri. Il nodo principale riguarda i costi di produzione: le strutture infatti avrebbero bisogno di un grande quantitativo di energia, e conseguentemente avrebbero anche un impatto rilevante in termini di emissioni di CO2.
Intanto però altri importanti player del settore si stanno muovendo in questa direzione. L’israeliana AquaMaof, specializzata nel fornire soluzioni per l’acquacoltura a terra, ha stretto un accordo con la Kvidul, azienda ittica con sede a Trondheim, e annunciato la realizzazione di un allevamento in Norvegia che sarà capace di produrre fino a 20 mila tonnellate di salmone atlantico all’anno.
La norvegese Proximar sta costruendo invece il primo impianto di acquacoltura inland in Giappone, precisamente a Oyama alle pendici del monte Fuji. Il piano è quello di completarlo entro il 2023 e di servire “sushi a chilometro zero” ai consumatori per il 2024.