In vista della seconda parte della Cop15 a Montréal, il rapporto Living planet del WWF fotografa una situazione sempre più critica: tra il 1970 e il 2018 c’è stato un calo medio del 69% dell’abbondanza delle popolazioni. Secondo Moody’s, una minore biodiversità potrebbe causare una perdita di 1.900 miliardi di dollari per alcuni settori chiave dell’economia globale
Un bilancio pesante e alcuni segnali positivi. Potrebbe essere uno dei titoli per il quadro relativo al cambiamento climatico e alla perdita della biodiversità. Se, da un lato, il declino nella varietà delle forme di vita prosegue spedito, dall’altro l’aumento nell’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile inizia a dare risultati significativi. Il tutto a poche settimane di distanza dalla seconda parte della Cop15, dopo gli incontri virtuali dello scorso anno, in programma dal 7 al 19 dicembre a Montréal, in Canada.
Proprio in occasione della Conferenza delle parti della Convenzione sulla diversità biologica, il Wwf ha chiesto ai leader mondiali di impegnarsi nella sottoscrizione di un accordo sul modello di quello di Parigi, per adottare a livello globale misure efficaci in grado di frenare e interrompere la distruzione delle forme di vita sulla terra. Una prova in più di come il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità rappresentino due facce della stessa medaglia.
Cinquant’anni di declino
È di recente pubblicazione il Living planet report 2022, rapporto biennale curato e pubblicato dal Wwf, riguardante lo stato di conservazione della vita animale sul pianeta. L’organizzazione ha analizzato quasi 32mila popolazioni rappresentative di oltre 5.200 specie in tutto il mondo. Il primo risultato mostra, tra il 1970 e il 2018, un calo medio dell’abbondanza delle popolazioni in questione del 69%.
La situazione è comunque molto variegata al suo interno. Come sottolinea Ferdinando Cotugno su Domani, in Europa le politiche di conservazione della fauna si stanno dimostrando più efficaci, mentre nelle aree tropicali, laddove si concentra la maggior parte della ricchezza di vita animale, questa sta crollando. Non a caso, in America Latina e ai Caraibi si è assistito, negli ultimi cinque decenni, a una riduzione media del 94%.
Metà degli umani vive a meno di tre km da ambienti di acqua dolce, pari all’1% della superficie terrestre
In generale, a soffrire di più sono le specie di acqua dolce, che annoverano un terzo dei vertebrati del pianeta e registrano un calo medio dell’abbondanza dell’83%. Inquinamento, sfruttamento eccessivo e captazione delle acque hanno danneggiato gli ambienti di acqua dolce, pari all’1% della superficie terrestre, ma nelle cui vicinanze vive la metà degli esseri umani.
Altre conferme sulla gravità del contesto giungono dalle Liste rosse dell’Unione internazionale per la conservazione della natura – Iucn, il più grande bacino di informazioni riguardo allo stato di conservazione della flora e della fauna terrestri, con 147mila specie valutate. Scopo del database è stilare una tendenza relativa di sopravvivenza nel tempo e capire quali sono i casi a più alto rischio di estinzione. Rischio che coinvolge oltre 41mila delle specie considerate, ossia il 28% del totale.
Le cause della distruzione di biodiversità
Secondo il Wwf e la Iucn, le principali minacce per la vita animale e vegetale sono sei. L’agricoltura intensiva è la più diffusa per gli anfibi, la caccia e il bracconaggio per uccelli e mammiferi, soprattutto nel Sud-est asiatico. La deforestazione è tra le problematiche più gravi ai tropici. Solo in Brasile, nei primi sei mesi del 2022, è stata abbattuta un’area di circa quattro mila chilometri quadrati di foresta amazzonica – a questo proposito, saranno cruciali nei mesi e anni a venire, le decisioni del neoeletto presidente Lula. Il cambiamento climatico ha le maggiori probabilità di impattare in modo significativo nelle regioni polari, in Australia e in Sud Africa, mentre nel vecchio continente la questione principale è l’inquinamento. C’è infine il problema delle specie aliene invasive.
Non a caso, nelle conclusioni sulla posizione dell’Unione europea in occasione dei negoziati della Cop15, approvate il 24 ottobre dal Consiglio dell’Ue, gli obiettivi da perseguire riguardano le minacce individuate dalle due organizzazioni per la salvaguardia ambientale. Si citano la conservazione di almeno il 30% della terraferma globale e del 30% degli oceani, il ripristino di tre miliardi di ettari di territorio e di ambienti di acqua dolce degradati e di tre miliardi di ettari ecosistemi oceanici.
L’Unione spingerà anche per eliminare le colture illegali, insostenibili o non sicure, evitare l’introduzione di ulteriori specie esotiche invasive e controllare quelle già introdotte. L’attenzione è rivolta anche ai livelli di inquinamento e allo sfruttamento del suolo. Tema, quest’ultimo, molto delicato, se si pensa che, secondo uno studio pubblicato su Nature Scientific, dal 2000 al 2018 sono scomparsi più di due milioni di chilometri quadrati di natura incontaminata.
Il costo della ricchezza perduta
Alle conseguenze ambientali e sociali del deterioramento della biodiversità, si aggiungono gli effetti negativi a livello economico. Una ricerca di Moody’s Investor Service, ripresa da Bloomberg, riporta il rischio di una potenziale perdita di quasi 1.900 miliardi di dollari in nove settori chiave dell’economia globale, fra cui l’estrazione di carbone e le esplorazioni di giacimenti di gas naturale e petrolio, oltre all’agricoltura, la pesca e il turismo.
Una ricerca di Moody’s Investor Service riporta il rischio di una potenziale perdita di quasi 1.900 miliardi di dollari in nove settori chiave dell’economia globale
Queste industrie sono infatti molto esposte alla riduzione di capitale naturale, cioè la quantità di organismi viventi – la biodiversità – e di elementi naturali, da cui derivano alcuni importanti benefici per la collettività. Sono i cosiddetti servizi ecosistemici, come la tutela del suolo da erosione e inondazioni, gli habitat per la fauna selvatica, la presenza di acqua potabile, terreno fertili, materiali.
Per provare a dare un valore economico alla natura, è possibile menzionare una stima del World economic forum. Circa la metà del prodotto interno lordo mondiale, pari a 44mila miliardi di dollari, è dipendente in qualche misura dalla natura. Seppur coinvolte in maniera minore, Moody’s ha inoltre identificato 24 ulteriori settori con un’esposizione moderata al rischio legato al mondo naturale, con un debito intorno ai 9.600 miliardi di dollari.
Il rapporto fra la salvaguardia del capitale naturale e il benessere economico dagli Stati è ancora più stretto nel caso dei Paesi in via di sviluppo. La Banca mondiale ha evidenziato il rischio della scomparsa della varietà naturale per le popolazioni più povere e vulnerabili. In una recente ricerca, l’organizzazione con sede a Washington ha affermato che l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale potrebbero vedere il proprio Pil contrarsi ogni anno rispettivamente del 9,7% e il 6,5% fino al 2030, nel caso in cui alcuni servizi ecosistemici essenziali, come l’impollinazione, la fornitura di legname dalle foreste e la disponibilità di pescato collassassero.
Quanto si spende per salvare il capitale naturale
Dieci anni fa, per contrastare la riduzione della biodiversità, il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo e la Commissione europea creavano la Biodiversity finance initiative. Biofin collabora con governi, aziende, società civile e comunità in difficoltà in 40 Paesi per promuovere investimenti mirati e mettere a disposizione strumenti finanziari in grado di salvaguardare il patrimonio naturale, combattere il cambiamento climatico e offrire nuovi posti di lavoro. Secondo l’ente, ogni anno vengono spesi almeno 143 miliardi di dollari a difesa della biodiversità, una cifra lontana dagli 824 miliardi considerati necessari per proteggere la natura e ripristinare gli ambienti degradati.
Resta da capire quale sia lo sforzo effettivo dei governi per tutelare la natura. Basandosi soprattutto sui dati di Biofin, uno studio uscito lo scorso anno su Nature ecology and evolution ha analizzato gli investimenti pubblici per la biodiversità su un campione di 30 Paesi, dal 2008 al 2017. Di questi Stati, il 17% è considerato sviluppato e il 56% ha almeno un hotspot di biodiversità, vale a dire una regione ad alta diversità biologica, la cui esistenza è a rischio.
Nel periodo considerato, emerge una prima informazione positiva: i fondi pubblici per la biodiversità sono aumentati, sia in termini assoluti, sia in rapporto alle spese nazionali e al Pil dei singoli Paesi. Questa crescita ha permesso di ridurre il totale delle specie a rischio dall’11% all’8% in un decennio. Ma non è ancora abbastanza. A livello medio, la percentuale di prodotto interno lordo dedicata a questo tipo di investimenti è lo 0,3% per gli Stati sviluppati e lo 0,29% per le altre nazioni analizzate. Valori inferiori allo 0,5% del Pil stabilito nel piano di Aichi sui 20 obiettivi sulla diversità biologica, definiti durante la Conferenza delle parti del 2010.
Clima e biodiversità nell’agenda degli investitori
Il crescente impiego delle rinnovabili e i soldi spesi per combattere il cambiamento climatico e custodire il patrimonio naturale del pianeta stanno iniziando a dare i loro primi, visibili frutti. Un’ulteriore spinta nella direzione della sostenibilità dovrebbe derivare dall’Inflation reduction act, in vigore negli Stati Uniti da metà agosto. Secondo gli analisti di Credit Suisse, la legge avrà un profondo impatto sull’economia nel prossimo decennio e negli anni successivi.
Scrive The Atlantic che gli esperti della banca svizzera ritengono la previsione di 374 miliardi di dollari in investimenti sul clima parecchio sottovalutata. Molti degli incentivi previsti dalla legge sono infatti crediti d’imposta senza limiti e potranno essere sfruttati da un numero così elevato di imprese e privati cittadini che la spesa totale dovrebbe aggirarsi sugli 800 miliardi di dollari. In più, considerando che la spesa pubblica tende a indirizzare anche gli investimenti privati, all’ambiente potrebbero essere destinati in totale circa 1.700 miliardi di dollari nei dieci anni a venire.
Concentrando lo sguardo sulla protezione della biodiversità, molte grandi società di gestione di fondi stanno includendo nel proprio portafoglio investimenti responsabili. Fra queste, la britannica Schroders, che ha chiuso due accordi in questa direzione, uno dei quali per proteggere il patrimonio naturale nel Sud-est asiatico. Nel futuro, sostiene il CEO, Peter Harrison, è probabile attendersi un significativo aumento di denaro speso per la cura del capitale naturale. Una crescita dovuta alla maggiore consapevolezza delle persone sul ruolo essenziale della natura nella transizione ecologica.
La biodiversità è l’ambito Esg con lo sviluppo più rapido sui mercati finanziari globali
Dello stesso parere anche Catherine Howarth, Ad del fondo di investimento responsabile ShareAction. Oggi la biodiversità è “l’ambito Esg con lo sviluppo più rapido sui mercati finanziari globali”, ha commentato Howarth al Financial Times. “In appena tre anni, la questione è passata da essere virtualmente ignorata dai maggiori investitori istituzionali a essere conosciuta da tutti”. Quello che ancora fatica a imporsi è invece un approccio sistemico da parte dei grandi attori privati. Lo dimostra una ricerca diffusa nel 2020 dalla stessa ShareAction: nessuna delle 75 più importanti compagnie di asset management aveva una politica dedicata alla biodiversità.
Nello stesso anno, un gruppo di 26 investitori finanziari ha deciso di formare il Finance for biodiversity pledge – oggi i firmatari sono 111 -, un’iniziativa volta a sollecitare l’impegno dei leader di tutto il mondo e promuovere il proprio impegno per la salvaguardia e il ristabilimento della biodiversità. Si tratta di un progetto importante, data la potenza di fuoco dei soggetti aderenti, che gestiscono nel complesso 16,3mila miliardi di euro. Il loro programma si articola in cinque fasi: condividere le informazioni a disposizione, coinvolgere le aziende, valutare l’impatto delle attività, stabilire gli obiettivi e informare pubblicamente dell’impatto dei propri investimenti sulla biodiversità entro il 2025.
Più in generale, un importante sforzo collettivo, da parte del settore pubblico e privato, è richiesto, se si vuole garantire un mondo vivibile alle generazioni future. Sforzo che le istituzioni, le aziende e i cittadini hanno intrapreso e stanno implementando. Un primo passo rilevante, apripista alle difficili sfide dei prossimi anni. Come quella, promossa dall’Onu, di ripristinare entro il 2030 l’ambiente naturale in un territorio vasto come la Cina, per combattere le carestie, l’inquinamento, il cambiamento climatico e difendere l’indispensabile biodiversità.