Una coppia di italiani a New York hanno lanciato una startup che è un giocattolo open source e stampato in 3D per bimbi. Si chiama Automobile 36 e lancia un messaggio ai Fablab italiani: producetela a Natale
«E’ la nostra prima volta a New York. Ci siamo venuti con l’idea che qui possono succedere cose impossibili altrove». Me lo dice Michela Montanini, co-fondatrice con suo marito Eugenio Morini della startup MQB di Parma. Li ho incontrati il 13 ottobre a Manhattan, alla sede dell’Istituto per il commercio estero (ICE), dove la coppia ha presentato il primo prodotto della startup: Automobile 36, una macchinina a pedali per bambini, in cartone e plastica PLA. L’automobilina e’ da montare – i pezzi stanno in una scatola – e può essere personalizzata. Le componenti in plastica sono fatte con una stampante 3D (Wasp). Si può già acquistarla sul sito di MQB (costa 580 euro), magari come regalo per il prossimo Natale, sperano Michela ed Eugenio.
Ma il loro progetto è molto più ambizioso. «Automobile 36 – dice Michela – serve a spiegare la nostra filosofia aziendale da ‘moderna bottega artigiana’, che utilizza le nuove tecnologie, come la stampa 3D, e i nuovi materiali, ecologici e biocompostabili, per realizzare prodotti personalizzabili e vendibili in kit di montaggio». Il sogno della coppia è produrre un veicolo per la mobilità urbana. L’esperienza ce l’hanno: da 15 anni lavorano nel campo della progettazione per l’industria automobilistica. E sono entrambi appassionati delle quattro ruote.
«Ci siamo conosciuti a scuola, all’Istituto d’arte di Parma – racconta Michela, che ha 45 anni come il marito -. Poi io mi sono laureata in Architettura al Politecnico di Milano, perfezionandomi in car design, e ho fatto uno stage in Fiat Auto. Eugenio invece si e’ diplomato come Stylist engineer all’Istituto superiore di scienza dell’automobile (ISSAM) di Modena e ha lavorato con diverse case automobilistiche, dalla Daimler-Benz alla Pagani Automobili, dalla Lotus alla Yamaha”.
L’anno scorso, il grande passo, con la creazione della startup. «Siamo autofinanziati e per ora ci basta così, siamo molto piccoli – dice Michela -. Abbiamo assunto un paio di ragazzi dall’ISSAM per formarli sulla progettazione 3D. Produciamo le macchinine solo su richiesta e se per Natale riceveremo molti ordini, ci rivolgeremo alla rete di FabLab, perché crediamo nella collaborazione e nell’open-source».
New York è il posto ideale per una startup come
Automobile 36
Ma perché New York?. «Abbiamo saputo che all’ICE c’era la possibilità di essere ospitati per tre settimane e abbiamo fatto richiesta», risponde Michela. In effetti da qualche mese la sede newyorkese dell’ICE o, come si dice qui, Italian trade commission, ha lanciato il Progetto Start Up Value: «Per supportare, assistere e promuovere le startup innovative italiane in USA», spiega il nuovo direttore Maurizio Forte. In pratica l’Ufficio ICE di New York mette a disposizione un temporary office: tavolo-scrivania in un open space, con multi-presa e connettività internet veloce Wi-Fi, per un periodo massimo di 15 giorni di calendario, previa prenotazione e disponibilità, con la possibilità di estendere il periodo per altri 15 giorni al massimo. E’ anche possibile usare una saletta riunioni (max 20 persone) per meeting. Per fare domanda, basta iscriversi qui)
Approfittare dell’open space dell’ICE e’ una buona idea per due motivi.
- fa risparmiare;
- mette in contatto con persone che hanno esperienza del business fra Italia e USA.
Ma non serve a niente se si arriva senza “aver fatto i compiti a casa”, che è una tipica espressione americana, non a caso sconosciuta alla cultura italiana.
Prima di venire a New York, bisogna chiedersi quali obbiettivi si vogliono raggiungere; individuare le realtà che si vogliono visitare e con cui si vuole entrare in contatto e fissare appuntamenti; organizzarsi un fitto calendario di partecipazioni ad eventi eccetera. Tutto questo non lo offre l’ICE, ma sta alla startup organizzarselo.
A New York senza l’inglese. Ma è possibile
Il problema con Michela ed Eugenio è che invece sono venuti a New York impreparati. Addirittura sapendo di non parlare inglese e quindi fortemente handicappati nella comunicazione con qualsiasi americano che pure avrebbe potuto essere interessato al loro progetto. «Forse siamo stati presuntuosi», confessa Michela dopo che le faccio notare tutte queste carenze.
Essere venuti qui «con l’idea che qui possono succedere cose impossibili altrove» è fraintendere il Sogno Americano. All’inizio del Novecento gli emigranti italiani venivano qui credendo alle storie delle strade pavimentate d’oro, e poi finivano negli slums (i bassifondi del Lower East side, insani e pieni di criminalità: da vedere la Mostra al Museo della Città di New York http://www.mcny.org/jacobariis ). Oggi va molto meglio: 15 giorni a NYC sono sempre una piacevole vacanza, ma senza un serio lavoro preparatorio restano una vacanza. Con la competizione sempre più accesa di startup che vengono qui da tutto il mondo, per farsi notare non bastano una buona idea e una presentazione carina.
@mtcometto