Il responsabile all’innovazione di Coca Cola parla del rapporto della multinazionale con l’innovazione e le startup, ma avverte: senza fallire (e bene) non si innova
Parola d’ordine: efficienza. Innovarsi per restare competitivi: non c’è altra scelta, neanche per un gigante come Coca Cola. Per questo, il produttore della bibite più famose si interessa di piccole aziende innovative. «Non competiamo con le startup, ma andiamo in parallelo verso lo stesso obiettivo», afferma Marius Swart, Global Director Innovator ed Entrepreneurship di Coca-Cola. A Swart fa capo Coca Cola Founders, la piattaforma dell’azienda di Atlanta per allevare startup. La sua attenzione è rivolta all’early stage. Nella fase iniziale, sostiene, è più facile che la startup si focalizzino sulle innovazioni che interessano Coca Cola. Ma per lui la prospettiva, da sempre, si concentra sulla crescita: «Far partire un business è facile. Il difficile è espandersi», dice a StartupItalia!.
E grazie a Coca Cola – uno dei marchi più pervasivi di sempre – Swart ha imparato cosa ci vuole per espandere un’azienda, dall’idea fino al diventare grandi a livello globale. Già nella sua prima attività, quando produceva cibo organico per cani (!), si era reso conto che «fare impresa è un processo duro, ma anche molto eccitante». Da seguire senza paura di fallire. Entrato in Coca Cola nel team finanziario, Marius Swart viaggiava per 47 settimane all’anno tra le più disparate sedi aziendali: «Osservare i diversi metodi di lavoro di Coca Cola nelle varie parti del mondo è stato l’ideale per capire come si ingrandisce un business». Oggi gira il mondo per trovare founders con l’esperienza e le capacità giuste per portare innovazione nell’universo Coke. E ieri era allo Startup Day dell’Università Bocconi, a Milano.
Come si sviluppa la vostra relazione con le startup?
“Founders first”, dice il motto sul nostro sito. Vogliamo innanzitutto che i founders si sentano totalmente a loro agio nella relazione con una grande corporation come noi e cerchiamo di rendere l’ambiente intorno a loro il migliore possibile. Cosa ci guadagniamo? Prima cosa, lavoriamo con persone veramente intelligenti. Seconda, in fase early stage creiamo insieme soluzioni ai problemi che la Coca Cola sta affrontando -adatti anche ai bisogni di altre aziende. A un livello successivo, di solito è più difficile andare da un’azienda e chiedergli di lavorare a una soluzione per un nostro problema: se inizi prima, sono più disposti al lavoro comune.
Quali risultati avete ottenuto finora?
Andiamo avanti da due anni, con risultati incredibili. Siamo molto orgogliosi. Come cooperazione, sta andando meglio delle aspettative. Abbiamo 12 aziende in portfolio, lavorano in dieci diversi posti nel mondo. Ognuna di loro è unica e lavora su un problema diverso. Adesso una è molto vicina a un round alto, due tenteranno di attrarre fondi seed nei prossimi due mesi e ne abbiamo almeno un altro paio capaci di attrarre finanziamenti grossi nei prossimi 6 mesi.
Acquisterete le startup della piattaforma Founders?
Il nostro modello non è basato sull’acquisto delle società. Siamo più interessati a mantenere una quota di minoranza nelle società, perché il primo obiettivo è rendere il nostro sistema più efficiente. Il valore strategico viene prima di quello finanziario. Non pensiamo tanto ad avere una grande exit – sarebbe bello ovviamente! – ma è più importante, dal punto di vista strategico, mantenere efficiente la nostra società.
Come avviene la selezione?
È un processo su base locale. Non accettiamo candidature. Partiamo identificando i problemi con le nostre divisioni sparse nel mondo. Una volta che ne abbiamo una lista, facciamo un controllo incrociato per vedere quale riguardano diverse aree geografiche. Il secondo passo è capire se, nei Paesi in questione, la comunità delle startup è matura abbastanza. Se lo è, troviamo il founder che vuole lavorare con noi. Ci mettiamo circa tre mesi per osservare a fondo l’ecosistema locale e, dopo vari incontri, identificare i founders ideali. Devono avere esperienza, visione e motivazione. Con la giusta capacità di concentrazione sui problemi.
Perché è in Italia?
Da un po’ osservo cosa succede nella scena delle startup italiane. Sta crescendo tremendamente. Penso ci sia una grossa domanda per più innovazione, qui. Vedo che sta entrando più denaro, il che alla fine porterà più persone a fondare più aziende. Visito la Bocconi perché alcuni dei più grandi founders che abbia mai visto sono usciti da programmi universitari simili a questo: non erano all’università, ma in associazioni collegate a forti università. Gli Alumni della Bocconi mi ricordano Stanford e il MIT, dove la comunità degli alumni è così forte che le persone che poi hanno avuto un’azienda portano di nuovo la loro conoscenza in università. Così hanno stimolato la fondazione di altre società. È un sistema che si autoalimenta. Ed è ciò che vedo qui. Gli alumni sono motivati a restituire all’università un aiuto, e a promuovere questa comunità di talenti top.
Ha osservato l’ecosistema italiano. Qual è la sua maggiore debolezza?
Come in Germania, si può migliorare molto sulla cultura del fallimento. C’è ancora la sensazione che se provi qualcosa, non funziona e fallisci è un male. Ma è meglio provare e fallire all’inizio, perché più fallisci più ti costruisci un’esperienza. Quando il tuo business comincerà a diventare più grande ci sarà minor spazio per il fallimento. Sarà la prova che hai davvero imparato qualcosa e sai gestire i cambiamenti. Un paio di idee che ho visto oggi potranno diventare grosse opportunità se i founders saranno capaci di non mollare e ottenere finanziamenti per crescere velocemente. È importante andare veloci, e se non si va veloci si resta all’idea. Ci sono molte idee, ma l’execution rimane fondamentale.