Forse arriverà il giorno in cui tutti i possibili nomi per un’azienda saranno stati esauriti. Ne ha scritto, ironicamente, l’Economist in un articolo che si intitola, non a caso, “Nine billion company names”.
Nel 1953 usciva il racconto di Arthur C. Clarke’s “The Nine Billion Names of God” (in italiano “Operazione Shangri-La”). Un gruppo di monaci tibetani affitta un computer che li aiuti a trovare tutti i possibili nomi di Dio. Solo così, sostengono, si arriverà alla fine del mondo, il momento in cui tutte le stelle si spegneranno e niente esisterà più. «Il mondo potrebbe scoprire se c’è un equivalente a quella fine nell’attimo in cui tutti i nomi possibili per un’azienda saranno stati esauriti», scrive, ironico, l’Economist in un articolo che si intitola, non a caso, Nine billion company names. In effetti «l’Occidente sta sfornando startup a un ritmo mai avuto in precedenza. Le aziende dei Paesi emergenti stanno diventando globali», aziende costituite emergono da contesti e combinazioni impensabili. Ci saranno abbastanza nomi per tutti? E come saranno?
Un successo del nome delle startup
«Le aziende mettono molto impegno nella ricerca del nome. E fanno bene», commenta l’Economist, «il nome è la migliore chance per fare un’ottima prima impressione». Grandi nomi come “Google” possono avere così tanto successo da trasformarsi in un verbo – “to google”, o in italiano “googlare”, che suona strano, ma è usato ovunque. Altri, come “Monday” – il nome di un’azienda di consulenza, possono precludere il futuro di una società. Eppure il sovraffollamento è solo uno dei motivi per cui dare un nome ad un’azienda è diventato così difficile. Un’altra ragione, per esempio è la globalizzazione, perché nomi che in una lingua suonano efficaci potrebbero invece risultare offensivi per chi parla una lingua diversa. Poi c’è il problema del copyright, per cui le aziende devono assicurarsi che i papabili nomi non siano già occupati. Infine, c’è internet: il nome scelto dovrebbe corrispondere al dominio ma, spesso, i migliori sono già stati presi.
Le 4 fasi dei nomi. I nomi inventati
L’industria dei nomi è stata influenzata da quattro fasi di sviluppo, spiega l’Economist. Tutte, però, affette da un problema di fondo: espandevano con rapidità il numero di nomi disponibili, ma si esaurivano sotto il peso della noia. Il primo trend è stato quello dei nomi inventati. Non significano niente in nessuna lingua, ma ricordano qualcosa – l’Economist cita gli esempi di Totvs, un’azienda brasiliana, di Zeneca, una multinazionale farmaceutica britannica, e di Mondelez International, l’azienda che produce i biscotti Oreo. «Sono nomi surrogati che possono essere preferibili a minestroni di lettere alfabetiche, ma hanno l’effetto opposto a quello per cui sono stati creati: invece di dare un volto umano alle aziende, enfatizzano la loro mancanza di anima».
I nomi “tech”
Il boom tecnologico ha dato una spinta all’industria dei nomi, introducendo tutto un nuovo corso di nomi tech: Google si è ispirata al termine matematico che in inglese indica un numero intero composto da un 1 seguito da 100 zeri, “googol”, mentre Tesla ha guardato all’unità di misura per la densità dei flussi magnetici. Altri hanno preferito nomi più familiari – a volte anche troppo – come Yahoo o PayPal. Molte hanno dato il via a una catena di imitazioni: tutti i nomi che cominciano con Buzz (dopo la nascita di BuzzFeed) e tutti quelli che terminano nel suffisso “-ify” (dopo Spotify).
I nomi “creativi”
«La terza fase è stata la moda dei nomi “creativi” – l’equivalente, tra i nomi, della barba degli hipster», continua l’Economist. Sono nomi che dovrebbero essere l’opposto dei classici nomi da azienda: concreti piuttosto che astratti, appariscenti piuttosto che blandi. «Ma come le barbe hipster soffrono della legge dei rendimenti marginali decrescenti», ossia: più ce ne sono meno appaiono originali e, nel caso dei nomi, efficaci. Orange è stata probabilmente una delle ultime società a chiamarsi come un frutto. Le società di servizi finanziari hanno fatto largo uso di nomi creativi – Wonga e QuickQuid sono due esempi – «così tanto», commenta l’Economist, «che ti mancano un po’ i vecchi tempi, quando le banche si davano il nome del loro fondatore (Lloyds) o adottavano delle iniziali insignificanti (HSBC)».
Tutti gli altri, dai cognomi alle parole “sbagliate”
Infine, la globalizzazione, probabilmente il momento più deludente tra le quattro fasi di sviluppo dell’industria dei nomi. Alcune multinazionali hanno nomi indimendicabili che derivano dalle famiglie che le hanno fondate, come l’indiana Mahindra & Mahindra, che costruisce automobili, ma in generali la globalizzazione non ha portato alcun rinascimento per i nomi. Basta pensare che, come osserva la società di consulenza per i marchi Mark Lee of Watermark & Co, quattro delle dieci aziende pubbliche più grandi al mondo ha nel nome la parola China. Le società latino americane hanno invece una passione per le “x” – Cemex e Pemex, per esempio.
Il risultato è che le aziende ricorrono a mezzi sempre più disperati per emergere dalla massa. Miscugli di parole (PingStamp), parole comuni scritte in maniera sbagliata (Kabbage), parole che non hanno a che fare l’una con l’altra (Digital Marmalade). «La moda più irritante», secondo l’Economist, «è creare nomi che sembrano errori tipografici», come Flickr.
«Nel racconto di Clarke i programmatori di computer creavano circuiti appositi per eliminare le combinazioni ridicole. Nel mondo dei nomi la migliore diesa contro l’assurdo è il buon senso». Non siamo neanche vicini ai 9 milioni di nomi. E, anche prendendo spunto dal linguaggio comune, ne restano tantissimi di buoni: Google ha chiamato la sua holding Alphabet. «Meglio essere old-fashioned che assurdi: meglio Smith & Jones di un’accozzaglia che sembra uscita per sbaglio dallo Scarabeo. L’errore più grande è aspettarsi troppo. Le aziende migliori possono sopravvivere a nomi noiosi, ma i nomi più belli non salvano le aziende scadenti».
Cinzia Franceschini