Pagare in equity chi lavora per una startup è possibile. Il ministero dello Sviluppo spiega come fare, e perché si tratta di una piccola rivoluzione per come intendiamo i rapporti nel team e il senso di appartenenza all’azienda
Remunerare i lavoratori delle startup come gli amministratori della società. No, non si tratta di super stipendi o liquidazioni da favola ma di piani di incentivazione in equity. Praticamente, pagare dipendenti e consulenti con una quota del capitale della startup. Uno strumento già previsto e regolato dal decreto legge 179 del 2012 dell’allora ministro Corrado Passera, ma ora ripreso in un documento dell’attuale ministero dello Sviluppo economico (era già stata pubblicata una guida sull’argomento), che consiste in un modello commentato di contratto di piano di incentivazione in equity. Un vero e proprio fac-simile commentato per prendere dimestichezza con questi strumenti finanziari (stock option e work for equity) di solito riservati alle società quotate.
Che cosa è un piano di incentivazione in equity
Non si tratta solo di una forma di retribuzione, ma anche di uno strumento in grado di avvicinare gli interessi dell’imprenditore a quelli dei suoi collaboratori. In concreto, si tratta di pagare parte del compenso dovuto all’amministratore, al dipendente o anche al collaboratore o consulente esterno, con una partecipazione al capitale della società. Una parte variabile della retribuzione sarà quindi collegata all’efficienza o alla redditività dell’impresa, alla produttività del lavoratore e del gruppo di lavoro, o ad altri obiettivi e parametri di rendimento concordati tra le parti.
Come funziona
Prima cosa da fare è decidere chi sono i beneficiari di questo tipo di pagamento (appunto, collaboratori esterni, dipendenti o amministratori) e poi decidere quale strumento specifico utilizzare. Proprio per questo è opportuno distinguere tra assegnazione di azioni, quote o strumenti finanziari. La legge prevede che gli strumenti finanziari si possano attribuire solo per assegnazione diretta e non mediante opzioni, ossia la possibilità di comprarli ad un prezzo e in un momento predeterminati.
Seguendo il modello del Mise, si legge che l’assegnazione di azioni o quote per esempio può avvenire mediante aumento di capitale a titolo gratuito oppure a titolo oneroso. In entrambi i casi, il capitale viene aumentato dall’assemblea straordinaria in misura corrispondente agli utili che si intendono attribuire.
Nel primo caso quindi le azioni e le quote possono essere assegnate gratuitamente ai lavoratori dipendenti della startup, con delibera dell’assemblea straordinaria e tenendo conto della misura degli utili distribuibili (art. 2349 cod. civ.). Agli amministratori e agli altri soggetti che non siano legati da un vincolo di subordinazione con la startup, le azioni e le quote possono essere assegnate sempre gratuitamente, ma nella misura degli utili netti risultanti dal bilancio, dedotta la quota da destinarsi alla riserva legale.
Ne secondo caso è previsto che le azioni e le quote possano essere attribuite anche grazie ad aumenti di capitale a pagamento, “offerti in sottoscrizione ai dipendenti, amministratori, collaboratori continuativi del soggetto abilitato (la startup)”. In questo caso, sarà l’assemblea straordinaria a fissare il prezzo di sottoscrizione.
Anche l’assegnazione di strumenti finanziari può avvenire sia a titolo gratuito che oneroso. In entrambi i casi il capitale sociale non varia, a fronte dell’emissione di strumenti finanziari si viene infatti a costituire una riserva del patrimonio netto.
Quali i benefici (e quali i rischi)
«Si tratta di uno strumento interessante perché in grado di aiutare il management della startup nel momento di avvio della stessa in cui, tipicamente, non c’è liquidità, inoltre aiuta a fidelizzare i dipendenti e i consulenti esterni e rappresenta per questi un incentivo» – ha spiegato Mattia Corbetta della segreteria tecnica del Mise – «in questo modo i dipendenti avranno tutto l’interesse a far sì che la startup funzioni bene visto che migliori saranno le performance, più loro guadagneranno». Quindi, siamo davanti ad uno strumento «che ha a che fare con la democratizzazione dei guadagni, oltre che dei rischi».
Come si legge nel testo pubblicato dal Mise “le startup innovative, attraverso la corresponsione di questi strumenti in luogo di somme di denaro, possono sopperire ad eventuali carenze di liquidità, mentre i beneficiari dei piani sono esclusi da prelievo contributivo, come previsto nella disciplina generale, e che, in aggiunta, sono anche esclusi da prelievo fiscale”.
Inoltre, è previsto un effetto “fidelizzazione” dato dall’eventuale presenza di vincoli temporali per l’attribuzione definitiva delle azioni o per l’esercizio della stock option. Limiti che, di fatto, per il soggetto così remunerato costituiscono un incentivo alla permanenza nella società. Un conseguenza non di poco conto in un settore in cui il capitale umano ricopre un ruolo decisivo per il successo dell’iniziativa imprenditoriale.
Da tenere sempre presente però è che con l’accesso al capitale sociale ci si assume anche il rischio imprenditoriale. I lavoratori e i consulenti parteciperanno quindi sia alle condizioni di successo che a quelle di insuccesso. E nel caso in cui il progetto fallisse, le azioni non varrebbero più nulla e di conseguenza le prestazioni lavorative, ormai belle e fornite, non verrebbero più ricompensate.