Se dovesse essere applicata, la digital tax garantirebbe allo Stato 3 miliardi di tasse. Riguarda solo i big della digital economy, e non le startup. Una piccola guida per capirci meglio
Web tax, Google tax, Digital tax. Non importa il nome, l’essenziale è che paghino. Sembra questa la volontà del governo, anzi in primis del premier Matteo Renzi, che questa volta ha personalmente riportato a galla l’argomento.
“Dopo aver aspettato per due anni una legge europea, dall’1 gennaio 2017 immaginiamo una digital tax che vada a colpire con meccanismi diversi, per far pagare tasse nei luoghi in cui sono fatte transazioni e accordi”.
Questo l’annuncio del presidente del Consiglio, ma cerchiamo di capire meglio di cosa tratta l’attuale proposta e cosa la differenzia dalla precedente, viste le critiche che in passato le aveva rivolto anche lo stesso Renzi.
Il primo a sollevare il problema delle tasse non pagate (o pagate troppo poco) dai grandi del web fu nell’ottobre del 2013, un disegno di legge presentato dal presidente della commissione Bilancio della Camera dei Deputati, Francesco Boccia (vicino all’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta). La proposta – fra mille polemiche – riuscì a sfiorare l’ingresso nella Legge di Stabilità di quello stesso anno. A bloccarla però contribuì proprio la pesante critica arrivata dal palco dell’assemblea del Partito Democratico, in cui per la prima volta parlava il nuovo segretario: Matteo Renzi.
La proposta venne da lui definita “un errore” e il governo fu invitato caldamente ad affrontare il tema in occasione del semestre di presidenza europeo dell’Italia.
@gianiaz Rispondo a te per rispondere a tutti. Chiediamo a Governo di approfondire questo argomento in sede europea e non votare questo txt
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 17 Dicembre 2013
Così fu, visto che venne tutto rimandato a luglio, anche a seguito delle perplessità e delle obiezioni presentate dalla Commissione Ue e dallo stesso Servizio Studi della Camera. L’ Europa, come ha detto anche Renzi, però poi non se n’è più occupata, o almeno non è ancora arrivata la legge che si aspettava.
Obiettivo: i ricavi di Amazon, Facebook e Google
L’idea di base del testo presentato da Francesco Boccia era quella di costringere le multinazionali del web a pagar le tasse sul fatturato dove lo realizzano, non dove vogliono. La questione, come riportava IlPost esisteva (ed esiste ancora) perché le aziende in questione registrano spesso i ricavi ottenuti come servizi prestati a un’altra società del gruppo, che spesso ha sede in un paese con una tassazione più favorevole.
Proprio per aggirare questo ostacolo, la proposta di legge prevedeva l’obbligo per le aziende tecnologiche straniere (come Google, Facebook e Amazon) di avere la partita Iva in Italia per le attività di commercio elettronico (pubblicità, e-commerce, gioco online). Solo in questo modo le vendite effettuate in Italia sarebbero state fatturate in Italia. La misura fu aspramente criticata perché secondo alcuni esperti avrebbe scoraggiato gli investimenti nel nostro paese e sarebbe andata sia contro le regole dell’Unione europea sul mercato unico, sia contro quelle dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In una versione successiva del testo si decise poi di mantenere in piedi l’obbligo della partita Iva italiana solo per la pubblicità online e per il diritto d’autore.
Tre miliardi per le casse dello Stato
La “digital tax” dovrebbe garantire alle casse dello stato 2-3 miliardi ed essere introdotta da gennaio del 2017. A dirlo è il sottosegretario all’Economia e firmatario di un disegno di legge proprio su questa materia, Enrico Zanetti, precisando come “non si tratti di una nuova tassa” ma di norme “che consentano di far pagare a chi opera nel digitale quelle tasse che tutte le imprese italiane che operano in Italia pagano”.
La nuova norma – spiega ancora all’Ansa il sottosegretario all’Economia – dovrebbe basarsi sui paradigmi della continuità e della significatività prevedendo l’assoggettamento al regime fiscale italiano per i soggetti non residenti che realizzano transazioni digitali con una continuità di sei mesi e una significatività in termini di fatturato pari ad almeno 5 milioni annui. In alternativa, viene invece prevista una ritenuta alla fonte sulle transazioni del 25%. Inoltre, prosegue ancora Zanetti, si tratta di una misura che va ad agire sul reddito. Non si va a toccare la disciplina Iva in quanto quest’ultima è normata a livello comunitario”. Ecco quindi come verrebbe superata l’impasse che aveva invece bloccato la precedente versione della norma, quella di Francesco Boccia.
“L’ambizione è tendere alla scadenza unica per tutti i pagamenti. A parte l’Iva che ha delle scadenze periodiche e che non può che mantenere la sua natura, per le imposte con pagamenti annuali, quelle locali o dei redditi, l’obiettivo è unificarle”, ha detto il sottosegretario Zanetti.
Non è una norma «contro» e non verrà applicata alle startup
La digital tax – che arriva dopo una lunga indagine conoscitiva svolta in commissione Finanze alla Camera (qui tutti i documenti) “non è una norma contro qualcuno. Sicuramente non sarà applicata sulle startup, ma solo su aziende con un giro d’affari superiore a una certa soglia e operanti da un certo numero di anni”. Rassicura in un’intervista a Formiche, il deputato di Scelta Civica esperto di telecomunicazioni e digitale, Stefano Quintarelli (che ha firmato la proposta di legge insieme a Zanetti), spiegando che per mettersi in regola le multinazionali dell’economia digitale possono “dichiarare una stabile organizzazione in Italia, come del resto ha fatto Amazon, e quindi pagare regolarmente le tasse nel nostro Paese. Oppure, possono applicare lo strumento del “Ruling internazionale”, che prevede la sottoscrizione di un accordo fra contribuente e fisco. In alternativa potrebbe scattare quanto previsto nella proposta: se operi in Italia in modo continuativo e hai un volume di affari sopra una certa soglia si applica una ritenuta”.
Non è ancora detto al 100% però che il governo stia pensando di utilizzare proprio il testo dei due deputati di Scelta Civica, come fa notare Guido Scorza dal suo blog su il Fatto Quotidiano. L’unica cosa certa – per ora – è che il perimetro legislativo in cui ci si dovrà muovere sarà quello delle linee guida che l’Ocse sta per definire proprio in materia di disciplina della tassazione delle transazioni online.