Cinque minuti e diciassette secondi, pause incluse: tanto dura il video con il quale Mark Zuckerberg nei giorni scorsi ha infiammato un dibattito planetario che non sembra destinato a spegnersi nel breve periodo. C’è però il dubbio che si tratti di un dibattito nel quale si sta guardando il dito perdendo di vista la luna, concentrandosi troppo sull’intenzione di Meta di interrompere il proprio programma di fact-checking con il quale per otto lunghissimi e costosissimi anni si è provato – senza per la verità nessun successo – a contrastare la disinformazione online o su quella di modificare le proprie policy riducendo il novero dei contenuti vietati.
Il riposizionamento delle Big Tech
Si tratta naturalmente di questioni importanti ma di piccolo cabotaggio rispetto al tema centrale del quale avrebbe, probabilmente, più senso discutere: quello che Zuckerberg mette sul tavolo al quarto minuto del suo video: «Lavoreremo con il presidente Trump per respingere i tentativi dei Governi di tutto il mondo di spingere le aziende americane verso la censura. Gli USA – ha spiegato il numero 1 di Menlo Park – hanno la più forte protezione costituzionale al mondo della libertà di espressione».
«L’Europa – ha invece sottolineato il CEO di Meta – ha un numero crescente di leggi che istituzionalizzano la censura e rendono difficile fare qualsiasi cosa innovativa. L’America Latina ha Corti occulte che ordinano silenziosamente di rimuovere contenuti online. La Cina ha vietato alle nostre applicazioni di lavorare nel Paese. L’unico modo che abbiamo di respingere questo trend globale è supportare il Governo americano. È per questo che negli ultimi quattro anni è stato difficile mentre anche il Governo americano ci spingeva verso la censura».
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Dopo Elon Musk, anche Mark Zuckerberg annuncia, insomma, la sua discesa in campo nelle cose della politica. E lo fa, proprio come Musk, senza retorica, né giri di parole, in modo diretto e trasparente: «lavoreremo con il Presidente Trump». Segue un j’accuse durissimo, verso Europa, America Latina e Cina.
Meta diventa attore geopolitico?
Meta, una società privata che con i suoi oltre tre miliardi di utenti e le sue piattaforme controlla una percentuale rilevante delle comunicazioni globali, si trasforma così in un attore geopolitico che si dichiara pronto a schierarsi con il governo di casa sua, contro governi che ritiene nemici dell’innovazione e della libertà di espressione.
In quasi un trentennio di storia di Internet, non era mai accaduto o – almeno – non era mai accaduto in termini tanto trasparenti da costringere la Commissione europea per prima a rispondere direttamente al Patron di Meta, respingendo ogni accusa relativa al preteso carattere censoreo della propria disciplina. Ma il punto non è il merito delle questioni sul tavolo, questioni non nuove e in relazione alle quali c’è naturalmente ampio spazio per posizioni, opinioni e convinzioni diverse e contrapposte.
Il punto è lo scenario che si sta rapidamente delineando con società private dotate di risorse economiche e tecnologiche ineguagliabili dalla maggior parte dei Paesi sullo scacchiere geopolitico globale che si stanno presentando al mondo come pronte a schierarsi, nel senso più pieno del termine, con il governo di casa loro contro il resto del mondo.
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Si tratta di uno scenario che non ci si può permettere il lusso di sottovalutare specie in considerazione della diffusa condizione di dipendenza tecnologica della società europea nel suo complesso proprio dalle aziende che battono bandiera americana. Una cosa, infatti, è preoccuparsi di questa dipendenza in termini commerciali e di mercato come, seppur tardivamente, l’Europa ha cominciato a fare da qualche anno e una cosa completamente diversa è doversene preoccupare anche politicamente, come, diventa ore urgente iniziare a fare.
La sovranità digitale
Mai, probabilmente, il tema della c.d. “sovranità digitale” è stato attuale e importante come in queste ore. L’assenza di questa sovranità, infatti, pone, oggi, l’Europa in una condizione di enorme fragilità superiore rispetto a quella di ieri perché appunto, la dipendenza tecnologica, oggi si colora di inediti contenuti geopolitici.
E guai, in questo ragionamento, a dimenticare che per i servizi digitali forniti dalle grandi big tech americane transitano letteralmente le vite di centinaia di milioni di persone che vivono in Europa, tradotte in dati personali nella disponibilità di aziende che si stanno, una dietro l’altra, dichiarando pronte a schierarsi politicamente.
E, al tempo stesso, guai a dimenticare che proprio grazie alla disponibilità di questa quantità straordinaria di informazioni personali quelle stesse aziende dispongono di un ineguagliabile potere di manipolazione di massa dell’opinione pubblica e sono, dunque, perfettamente in grado, di veicolare in maniera straordinariamente efficace qualsiasi genere di messaggio politico, in tempo reale, verso centinaia di milioni di persone.
Persino inutile ricordare i recenti episodi nei quali è già accaduto con le elezioni rumene annullate proprio a causa di un utilizzo indebito dei social network da parte di un candidato e con l’ammonimento che il Garante europeo per la privacy si è visto costretto a indirizzare alla stessa Commissione europea, rea di aver usato X e la sua straordinaria conoscenza degli utenti, per convincere decine di milioni di persone della bontà di una sua proposta regolamentare.
Che accadrebbe domani se il Governo di Washington chiedesse a X e Meta – magari assieme ad altri protagonisti dell’agone digitale che faranno sempre più fatica a non schierarsi e a entrare nel “blocco” – di convincere la popolazione europea della bontà di certi principi, di certi valori, di certe convinzioni? Credo ce lo si debba chiedere oggi senza attendere domani perché domani potrebbe essere troppo tardi. Sono, oggettivamente, giorni bui della storia di Internet, forse tra i giorni più bui e c’è più bisogno di sempre di lucidità, razionalità, buon senso e apertura al confronto e al dialogo globale perché senza, il 2025, potrebbe essere l’annus horribilis dell’ecosistema digitale globale.