Cosa accomuna Fabio Fazio a Mike Tyson? Entrambi rappresentano al meglio la Videoevoluzione ovvero quel processo di cambiamento che porta oggi la televisione a dover essere considerata un Nuovo Media. Una televisione sempre più verso un’organizzazione per app che passa dal lineare all’on-demand e viceversa, senza soluzione di continuità.
Una televisione dove il confine tra le piattaforme internazionali di prima generazione e gli OTTv dei broadcaster nostrani tenderà ad essere sempre più sottile, portando provocatoriamente a dire “’Netflix’ e ‘Canale5’ saranno la stessa cosa”. E tornando alla domanda iniziale, Fazio e Tyson, ognuno a modo suo, hanno messo il proprio volto ad un mattoncino di questa convergenza che si sta realizzando. Due punti di vista diversi che potrebbero indicare la strada del cambiamento e noi siamo qui per non farlo passare inosservato. Iniziamo dal “mattoncino” di Fazio.
La storia della TV si ripete
Che Tempo Che Fa, da 20 anni programma televisivo della Rai, nel 2023 passa, non senza innalzare un gran bel polverone, a Warner Bros. Discovery sul NOVE. Un clamore innescato per lo più per il sapore politico che aveva la fuori uscita del suo conduttore Fabio Fazio dalla televisione di Stato. Un’attenzione però che avrebbe meritato ancora di più proprio per il fenomeno che da li a poco, alla luce dei risultati conclamati, avrebbe rappresentato. In un attimo Fazio infatti sfondò la soglia del 10% di share in una rete che, a parte Maurizio Crozza, si attestava tra il 2 e il 3 percento.
Un ascolto di poco inferiore a quello che fino a pochi mesi prima faceva su Rai3. Una vera e propria transumanza che non si è affievolita dopo la curiosità del primo momento. Da Rai3 i telespettatori sono passati al NOVE. È una cosa scontata? No, a maggior ragione oggi che abbiamo sotto gli occhi la più faticosa impresa di un ottimo Amadeus.
Se Silvio Berlusconi stesse ragionando con noi alla ricerca della risposta a questa domanda, ricorderebbe il flop della campagna acquisti dell’autunno 1987 quando strappò alla Rai, in una volta sola, Pippo Baudo, Raffaella Carrà ed Enrica Bonaccorti, con la convinzione di essersi comprato i milioni di telespettatori che li seguivano sulle reti pubbliche.
Conseguenza: ascolti non in linea con le aspettative e una Rai che, nel tentativo di correre ai ripari, diede più visibilità con successo a volti che poi diventarono protagonisti dei suoi palinsesti, come Fabrizio Frizzi. Un po’ quello che è appena accaduto con Stefano De Martino. La storia, anche quella televisiva, è il caso di dire, si ripete. Ma allora perché con Fazio ha funzionato e con Amadeus (e i suoi noti predecessori) non è stata automaticamente la stessa cosa?
L’uomo format
Voglio estremizzare, senza poter essere smentito dai fatti, dato che quanto sto per dire è fantatv: se Fabio Fazio, col suo Che Tempo Che Fa, l’avessero chiuso dentro Amazon Prime Video, avrebbe ‘smosso’ pubblico, proporzionalmente, nello stesso modo. Un’operazione che senz’altro avrebbe stimolato la realtà di Besos a testare nuovi modelli di business e di proposizione dei contenuti, velocizzando così il processo videoevolutivo di questa piattaforma. Strategicamente e agevolato dai fatti, Fazio non ha toccato nulla del suo programma, nemmeno i pesci nell’acquario, effettuando un trasloco di un prodotto che è un appuntamento fisso (elemento fondante i principi basici della televisione di tutti i tempi) da 20 anni.
Un processo di costruzione di una popolarità e un’affezione che ha alle spalle ben due decenni e che ha trasformato Fazio stesso nel format. Quindi il format andato sul NOVE o che sarebbe andato su Amazon Prime Video, in primis è Fabio Fazio, non Che Tempo Che Fa. Anche se oggi giorno sono poche le operazioni simili possibili, sapreste individuarne una? La più facile da intuire è Maria De Filippi se legata ad uno dei suoi cavalli di battaglia (altra operazione che sembra essere stata tentata qualche rinnovo di contratto fa dall’allora Discovery). E il suo format che rappresenterebbe al meglio il fenomeno che stiamo affrontando potrebbe esse Amici. Cosa accomuna Che Tempo Che Fa ad Amici? Il tipo di pubblico.
Quando il pubblico è… community
Non sto parlando della profilazione di chi guarda questi due programmi, ma della forte affezione di questo tipo di pubblico verso il contenuto, rendendoli gruppi caratterizzati da un forte senso di appartenenza. I pubblici di entrambi i programmi infatti sono più identificabili con il concetto di comunity. Pubblici che non solo si intrattengono con quel contenuto, ma in cui si riconoscono, indipendentemente da dove viene trasmesso o reso disponibile.
Così si spiega la transumanza da una rete televisiva all’altra o da una rete ad una piattaforma, che viene rafforzata sempre più se la riconoscibilità e l’unicità di quel contenuto è garantita, senza disattendere le aspettative dei suoi fedeli telespettatori. Ecco perché anche i pesci nella scenografia di Che Tempo Che Fa concorrono a creare quel 10% percento di successo.
Quindi, giocando con le parole, un elemento che potrebbe distinguere un programma televisivo, ovvero qualcosa di fruito nel contesto di un palinsesto, avvalorato anche da ciò che lo precede e lo segue, dall’essere un contenuto, ovvero qualcosa che ha la forza attrattiva sufficiente per essere cercato a prescindere dal luogo che lo rende disponibile, potrebbe essere appunto l’avere un pubblico-comunity.
La TV che non c’è
Visionario ciò che stiamo raccontando? Forse sì, se si pensa alle potenzialità di una Televisione organizzata per applicazioni, in cui la gara tra piattaforme, che si chiamino Disney+ o RaiPlay, sarà sempre più sullo stesso piano fino al raggiungimento della convergenza che stiamo immaginando. Certo però che il pubblico-comunity che ti può seguire ovunque, onore al merito, c’è chi l’ha intuito circa 30 anni fa. Si tratta di Gianfranco Funari.
Un conduttore che ha scardinato il linguaggio del talk show politico, introducendo nuove grammatiche. Insomma un precursore del concetto di conduttore-format. Ma in questo caso precursore nel pensare possibile una televisione fuori dalla televisione. Contesto: fine anni ottanta, inizio anni novanta, c’era il duopolio e i tasti del telecomando erano ancora più che sufficienti. Funari, pare per aver dato fastidio con la sua irriverenza alla politica italiana, nonostante il grande seguito di pubblico, non trova spazio né nell’allora Fininvest (gli venne sospeso il programma quotidiano Mezzogiorno Italiano in onda su Italia 1) né in Rai.
Così sfidò il sistema e realizzò il suo programma, blocchi pubblicitari compresi e lo fece trasmettere, un po’ come fece ai suoi inizi Berlusconi, da una cordata di 75 emittenti locali. Titolo: Zona Franca. Di nome e di fatto, visto il momento vissuto dal conduttore. Un improvvisato network che, nonostante l’assenza del tam tam da social dei giorni nostri, fu un successo da oltre 2.000.000 di persone ogni giorno. Due milioni di persone accomunate dalla stessa voglia del conduttore di indagare nella politica nostrana. Era l’inizio di tangentopoli. Quel pubblico si riconosceva in Funari e si dimostrò una comunity.
Miike Tyson, prove tecniche di diretta
E un pubblico di appassionati è senz’altro quello che ha seguito l’ultimo match di Mike Tyson, lo scorso 16 novembre. Ben 60 milioni di famiglie hanno assistito alla sua sfida (persa) con Jake Paul, uno youtuber, attore e pugile statunitense, classe 1997, diventato famoso nell’applicazione video sharing, Vine. Ma lo storico pugile al nostro ragionamento contribuisce non per questo. L’attenzione è da portare infatti su dove l’incontro si è svolto e come, ovvero su Netflix e in diretta. Se ci pensate bene e non è la prima volta che accade, la diretta è un metodo di trasmissione identificativo della televisione di sempre, antitetica al concetto di on demand caratterizzante invece il DNA delle piattaforme.
Un caso? Non proprio. Può essere un altro mattoncino che sta costruendo la convergenza di cui stiamo parlando. La diretta se utilizzata da una piattaforma ne scardina i paradigmi, offrendole delle nuove opportunità come per esempio sfruttare l’avere 60 milioni di famiglie riunite non solo nello stesso luogo, ma sullo stesso contenuto e nello stesso momento. Ma una diretta, con tanto di stacchi pubblicitari, vista su Rai1 o su Netflix fa qualche differenza? Tant’è che, seppur siano pochi a saperlo, in Francia e in pochi altri paesi, il colosso di Los Gatos, ha fatto dei test di programmazione a flusso.
Ovvero il pubblico, accedendo alla piattaforma, oltre ai titoli proposti dall’algoritmo, si è trovato un canale che proponeva una programmazione strutturata come un normalissimo palinsesto. Allora riformulo la domanda, collegando dei punti trattati negli appuntamenti precedenti di questa rubrica: se facessimo sparire la numerazione dei canali televisivi e vi accedessimo solo tramite le rispettive piattaforme che allo stesso tempo proporrebbero, come già accade, la fruizione dei contenuti anche on demand, non sparirebbero tutte le differenze di genere fatte fino ad oggi? Non diventerebbe tutto una televisione con la veste di nuovo media? Tra l’altro se anziché accedere ai canali dall’elettrodomestico televisore, noi ne fruissimo da tablet o smarphone, avremmo la prova provata che il futuro è già presente.