Il rapporto Food poverty food bank riapre una questione di fondo: prima di pensare all’innovazione nel cibo dovremmo tentare di risolvere lo squilibrio (sei milioni i concittadini che non possono permettersi un pasto regolare) o invece la ricerca nel foodtech servirà a migliorare la situazione?
Certe volte viene in effetti da domandarsi se non perdiamo di vista la piramide dei bisogni. Nel senso che forse, prima di pensare alla neocarne e alle uova 2.0, dovremmo risolvere ben altri drammi di fondo. Oppure no, sbagliamo, in realtà ogni alternativa è benvenuta per tentare di dare al mondo un’alimentazione più completa ed equilibrata. In questo senso la tecnologia può fare moltissimo.
Sei milioni di italiani senza un pasto regolare
Fatto sta però che, prima di mettersi al lavoro, bisognerebbe fare i conti con i dati concreti. Quelli appena diffusi per l’Italia dall’indagine Food poverty food bank stilata da Giancarlo Rovati e Luca Pesenti e pubblicata da Vita e pensiero con Fondazione Deutsche Bank Italia sono tremendi. Sei milioni di cittadini si trovano in condizioni di povertà alimentare. Uno su dieci, insomma, non può permettersi un pasto regolare. Fermi tutti, attenzione, state buoni: non è la solita tiritera sullo spreco, le soluzioni per combatterlo e così via. Basti pensare all’ultima app, Food Forward, che sta facendo parlare di sé proprio in questi giorni in California. Cioè: è anche quello, ma c’è altro.
Il punto su cui vorrei concentrarmi è semmai un altro, attiene alle questioni di base. Di cosa sarebbe giusto occuparsi prima, se un prima può esistere? Innovare sullo sfondo di uno squilibrio del genere o tentare di risolverlo a priori? Pensate che 1,3 milioni di quei sei sono minorenni. E che dal 2007, ultimo anno precrisi, al 2014, la quota di famiglie in queste condizioni è passata dal 6 al 14%. Gente che non assume proteine di qualità almeno ogni due giorni. Tanto per dare un’idea, Francia e Spagna navigano fra 7,4 e 3,5%. Da noi è un’emergenza assoluta di cui nessuno, proprio nell’anno dell’Expo, intende occuparsi.
In Francia lo spreco sta per diventare reato. E noi? Ah, da noi c’è l’Expo
Neanche i pacchi: dove vogliamo andare?
Insomma, se non siamo neanche in grado di soddisfare le domande di pacchi alimentari – fra l’altro il Fead, fondo per l’acquisto dei beni alimentari per i più bisognosi, è stato dimezzato e portato a 5 milioni di euro con l’ultima legge di stabilità – dove vogliamo andare? Perché dovremmo prendere parte alla pantomima dell’Expo mentre il 65% degli enti convenzionati con il Banco Alimentare dichiara un aumento dei propri assistiti? Dovremo prima o poi farcele, queste domande. Disoccupati, gente indebitata, separata o divorziata ma anche anziani e persone come si dice con l’odiosa etichetta “normali”: nell’80% dei casi la ragione del dramma è ovviamente la perdita del lavoro.
Leggevo nelle ultime ore che la dieta mediterranea dovrebbe essere considerata “come un farmaco” contro diabete e malattie cardiovascolari. Il solito, sacrosanto annuncio che arriva dai padiglioni milanesi. Magnifico: sarebbe bello però che tutti fossero in grado di accedere agli ingredienti cardine di quel tipo di regime alimentare. E invece la realtà ci racconta che va sempre peggio, visto che la povertà è in via di cronicizzazione. L’anno scorso, continua il rapporto, un ente su due non ha segnalato persone uscite da questa condizione.
Dal volontariato bisogna passare al reato e all’obbligo
“Diffonderemo i contenuti dello studio anche per incrementare il numero delle aziende che, sull’esempio di chi già lo fa oggi, siano disponibili a donare alimenti non più commercializzabili, salvandoli dallo spreco e destinandoli a scopo sociale e a sostenere con contributi la nostra attività” ha detto Andrea Giussani, presidente del Banco Alimentare. Siamo ancora qui, al volontariato e non all’obbligo stringente e alla gestione intelligente, alla presa di coscienza, alla responsabilità. In Francia lo spreco alimentare sta per diventare un reato: i supermercati sopra i 400 metri quadrati saranno costretti a stringere accordi per trovare una destinazione ai loro eccessi ancora perfettamente commestibili. E noi? Ah, da noi c’è l’Expo.