Alla Mini Maker Faire Trieste l’incontro con l’ingegner De Sandre, una dei creatori della Programma 101 Olivetti: il primo personal computer sarà tra i protagonisti della mostra di Make In italy a Expo (dal 18 maggio).
Lo scorso ottobre, all’interno della Maker Faire Rome, venne presentata la mostra: “50 anni di innovazioni italiane: dalla P101 alla prima macchina del caffè espresso spaziale”. Una mostra, curata dalla Fondazione Make in Italy, che ora sbarca all’interno dell’Expo Milano 2015. Da oggi, infatti, potrà essere visitata, in una versione ampliata rispetto all’originale, nelle due location in cui è stata divisa: il Padiglione Telecom Italia all’interno del complesso fieristico di Rho e il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia del Capoluogo lombardo.
Il prototipo della P101 (Programma 101), riconosciuto come il primo computer da tavolo della storia, fece il suo debutto internazionale all’esposizione mondiale di Parigi nel 1965. Il team, guidato da Pier Giorgio Perotto, elaborò uno strumento che aveva alcune caratteristiche che ancora oggi sono alla base di ogni personal computer: CPU a componenti discreti, memoria RAM (linea di ritardo magnetostrittiva), memoria di massa (cartolina magnetica) e stampante seriale a impatto.
All’interno del team di Perotto c’era anche un giovane ingegnere, Giovanni De Sandre. Matteo Troìa lo ha incontrato alla seconda edizione della Mini Maker Faire Trieste per dialogare con lui del successo della P101 (e di tante altre cose).
L’intervista
Come nasce la sua storia con Olivetti?
Io sono entrato in Olivetti il 1 aprile 1960, dopo aver fatto dei colloqui precedenti che avevano stabilito la mia idoneità in quell’azienda. Mi ricevette addirittura il capo dei laboratori dell’epoca, l’ingegnere Mario Tchu, che era figlio di un ambasciatore cinese in vaticano. Tchu si era specializzato negli Stati Uniti, e questo piacque molto ad Adriano Olivetti, che lo volle nella sua squadra. Io quella volta ero appena laureato, fresco di Politecnico di Milano, e pensi, oggi la mia laurea equivale alla laurea in ingegneria elettronica, ma all’epoca non esisteva in questa formulazione, così io ho avuto una laurea in ingegneria elettrotecnica con un “attestato di studi elettronici”.
Dunque lei fu ricevuto dall’ingegnere Tchu, che poi l’assunse?
L’ingegnere Tchu era una persona molto affabile, disponibile e cordiale. Mi spiegò tutta l’attività dei laboratori, mostrandomeli uno ad uno e spiegandomi con estrema pazienza e cura che cosa si svolgeva in quei luoghi. Alla fine ricordo che mi disse: “allora ingegnere, a lei che cosa interessa di più? Una cosa in produzione o in progetto?” e io risposi un po’ intimorito “a me onestamente piacerebbe lavorare ai progetti…”. Allora Tchu mi chiese di nuovo: “ma a lei piacerebbe lavorare sull’evoluzione e sulla miglioria dei nostri prodotti già esistenti o invece su prodotti del tutto nuovi?” e allora gli dissi che pur senza voler peccare di presunzione, a me sarebbe piaciuto moltissimo lavorare su progetti del tutto nuovi.
L’ingegnere Tchu prese il telefono, chiamò l’ingegner Perotto e gli disse: “caro ingegnere, ho qui una persona che fa per lei.” Quella frase decise per sempre il mio futuro professionale. Entrai così nel gruppo di lavoro dell’ingegner Perotto, che era il mio diretto responsabile anche se aveva solo pochi anni più di me. Perotto era una persona squisita, di eccezionale cultura e capacità tecnica. Aveva un orientamento spontaneo verso la concretezza. Io fui molto fortunato perché venni catapultato in un ambiente quasi idilliaco. In Olivetti la gerarchia aziendale non era vissuta come un imposizione, non pesava. I capi c’erano, ma si rispettavano perché era naturale rispettarli. Erano persone talmente autorevoli che il rispetto nei loro confronti era spontaneo. Ho trovato un clima di grandissima libertà, ma anche di grandissimo coinvolgimento. Se avevo un problema bastava che chiedessi aiuto e venivo ascoltato. I miei problemi e le mie lacune le ho colmate chiedendo. Ho imparato moltissimo mentre lavoravo.
Di cosa si occupò inizialmente?
La prima cosa di cui mi sono occupato sono stati gli assegni magnetici, che portano ancora sulla parte bassa due spazi più larghi e tre un po’ più stretti. La posizione di questi spazi determina il codice di lettura. La macchina che leggeva questi codici l’aveva progettata Perotto e io mi sono occupato della messa a punto, verificando il suo funzionamento e collegandola ad una macchina Olivetti già esistente. Nel giro di sei mesi avevo già realizzato qualcosa.
E poi la P101…
I lavori alla P101 cominciarono con un profondo studio di fattibilità del prodotto, inizialmente puramente teorico. Volevamo realizzare una macchina che non si limitava solamente a fare le quattro semplici operazioni che già facevamo con le macchine meccaniche. Allora produrre le macchine meccaniche costava 39 mila lire, ma poi venivano rivendute a 390 mila lire. Per la Olivetti investire in questo prodotto non avrebbe portato i ricavi sperati. Bisognava fare qualcosa di livello un po’ superiore. Così cominciammo a lavorare al prototipo della P101.
Non sapevamo ancora che macchina dovevamo creare, nel senso che non esisteva ancora nulla di simile sul mercato. Tuttavia per me i vincoli erano chiarissimi: doveva essere facile da utilizzare, alla portata di un utente non professionista. L’accessibilità doveva essere il suo tratto caratterizzante. In secondo luogo doveva essere di dimensioni ridotte. Infine doveva costare il meno possibile. Guidati dall’ingegnere Perotto, quindi, cominciammo a lavorare su questo progetto elettronico. Allora la prima cosa da fare era decidere il tipo di memoria da installare nella macchina. Certamente non avevamo la possibilità di andare in negozio e scegliere tra diverse decine di memorie a nostra disposizione. In quegli anni c’erano ben poche memorie. In particolare c’era la memoria a nuclei, che però non andava bene per le ridotte dimensioni della nostra futura macchina. L’ingegnere Perotto lo capì subito, io un po’ dopo. (sorride) Dopo uno studio sul tipo di memoria da scegliere ci siamo orientati su un tipo di memoria di passata generazione, che erano state ormai dismesse (la memoria di lavoro era a linea di ritardo magnetostrittiva). La tecnologia dell’epoca ci forniva delle memorie che non andavano a rispettare i vincoli che ci eravamo imposti, così abbiamo utilizzato delle componenti del passato, per realizzare la “macchina del futuro”.
I prodotti rivoluzionari come fu la P101, si apprezzano quando sono pronti. Dietro alla loro realizzazione c’è sempre però un grosso lavoro. Quanto avete lavorato a questo progetto?
Ci siamo messi a lavorare a testa bassa, giorno e notte, molte volte senza renderci conto che era già arrivato il weekend. In alcuni periodi non esisteva la domenica intesa come giorno di riposo. Non esistevano morose con cui passare il pomeriggio. Tutto ciò però non lo ricordo come un peso, ma come il più elettrizzante periodo della mia vita. Dovevamo arrivare primi. Io credo che bisogni arrivare per primi in certe cose, che non significa strafare, ma impegnarsi e spendersi al massimo per raggiungere i propri obbiettivi. Correre dietro è molto peggio che fendere l’aria.
Non ha mai sentito il peso della fatica in quello che faceva?
Non esisteva il concetto di fatica per noi. Era completamente superato dall’interesse che c’era per quello che facevamo. Ci sentivamo un po’ pionieri in un mondo in cui avevamo spesso progettato parti di circuiti elettronici, ma mai una macchina per intero. Procedevamo per tentativi ed errori, ma mano mano che si procedeva aumentava l’esperienza.
Capitolo innovazione
Che cos’è per lei?
L’innovazione è avere qualche esigenza insoddisfatta. Per tornare alla mia storia, io credo che il fatto di lavorare alla P101, non sia stato da subito un qualcosa di innovativo. Per me inizialmente era soprattutto una forte esigenza. Se ripenso a quando all’Università facevamo i calcoli col regolo con cui spesso si sbagliava, l’idea che si potesse creare una macchina che mi aiutasse con estrema velocità e precisione a fare quei calcoli, per me rappresentava la soluzione ad una mia esigenza reale. All’esigenza va messa insieme una qualche competenza tecnica necessaria a realizzare nel concreto la propria idea.
L’innovazione vuol dire voglia di andare nel deserto inesplorato, sperando di trovare un’oasi, una soluzione che però non ci siamo trovati già pronti, ma che abbiamo realizzato noi.
L’Italia è un Paese ancora capace di accogliere la tecnologia?
Quando c’è qualcosa di veramente innovativo, non so se l’Italia sia il miglior paese dove raccontare tale innovazione. Da questo punto di vista forse gli Stati Uniti sono un paese più pronto mentalmente, più pragmatico e più abituato a comprendere le novità. Ma questo avviene solo nelle fase iniziali. Anche la Olivetti inizialmente era poco più che un’isola rispetto al resto del Paese. Un sacco di persone non sapevano nemmeno che esisteva questa azienda.
Ma io credo che l’aspetto su cui dobbiamo ragionare sia il seguente. Oggi il mondo è sicuramente cambiato e noi siamo abituati ad accettare qualsiasi cosa nuova con estrema facilità. La sfida è capire cosa, in questo marasma di novità, crea veramente innovazione, intesa come la realizzazione di qualcosa di utile per la nostra vita. Che cosa incide davvero nella nostra vita? Ecco, se ciò che inventiamo o realizziamo incide in maniera che non è ovvia, banale, scontata, allora forse altri paesi sono più ricettivi, ma l’Italia di certo non è da meno, perché di prodotti di qualità ne fa quanti ne vuole. L’importante come dicevo, è capire cosa, tra le tante novità, è veramente utile per migliorarci la vita.
Rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Assolutamente sì. Anche se parlo col senno del poi. Uno non può sempre proiettare la propria vita e non sa cosa può accadere nel futuro. Certo è che più che l’esperienza in Olivetti in sé, mi piacerebbe rivivere lo spirito di quegli anni, che fondamentalmente è stato uno spirito estremamente positivo, ottimista, entusiasta. Dalla mia esperienza ho imparato che di fondamentale importanza è l’impegno e l’autocritica, che un po’ manca al giorno d’oggi. Innovare vuol dire anche essere convinti, determinati e alimentare la propria molla interiore. Aiuta molto essere introdotti nel mondo della tecnologia, soprattutto oggi che è ormai diventata pervasiva. Tutto nasce da un giusto equilibrio tra una forte spinta propulsiva e una grossa capacità critica che deve autoregolarsi dentro di noi.
Cosa ha imparato dalla sua esperienza?
Che non dobbiamo mai restare fermi. Ma pensi a Steve Jobs! Cosa ha fatto per fare quel che ha fatto? Non è che ha inventato chissà cosa. Ciò che fatto la differenza però è stata la sua continuità, la sua voglia di lottare, il suo carattere ferreo, che gli hanno permesso di trasformare un’azienda che stava per fallire nell’azienda che conosciamo oggi. Che cosa faceva Jobs? Di fatto faceva quello che facevano tanti altri, ma ovviamente con una cura dei dettagli e di alcuni aspetti che gli hanno permesso di fare la differenza. Oggi le aziende cavalcano l’onda per un paio d’anni e quando sentono che è necessario reinventarsi si arrendono e si siedono. Steve Jobs? Altro che seduto! Quello lì aveva gli spilli sotto il sedere che lo mettevano continuamente in movimento. Non si è mai adagiato e non ha mai mollato, e certo lo ha aiutato molto il suo carattere. Oggi dobbiamo restare sempre in movimento, senza mai sederci, perché l’innovazione è movimento.
16/05/2015
Matteo Troìa & Alessandro Frau