La startup delle protesi in 3D low cost si è aggiudicata il Funky Prize, intervista a Bruno Lenzi, 28 anni, che un anno fa ha fondato una community con 3 progetti e 100 volontari in tutto il mondo.
Il papà del pacemaker non era un medico ma un ingegnere, si chiamava Wilson Greatbatch e lo inventò per sbaglio. All’inzio non era mica un “apparecchietto” di pochi grammi così come lo conosciamo oggi: era grande come un armadio e funzionava con batterie che dovevano essere sostituite continuamente. Ma l’invenzione c’era già tutta, e in alcuni anni Greatbatch riuscì a ridurne le dimensioni a sufficienza per consentirne l’impianto nel petto di un adulto.
Col peso di una pagina di storia per metà già iscritta nel suo nome, quell’ingegnere newyorkese ha cambiato per sempre il corso della cura delle cardiopatie, scandendo i passi di una nuova era per la medicina, la scienza e la tecnologia. Tant’è che nel 1983 la National Society of Professional Engineers ha eletto il pacemaker uno dei 10 contributi di ingegneria più importanti per la società degli ultimi 50 anni.
Oggi viviamo un’epoca dove medici, ingegneri, biotecnologi, scienziati, hacker, nell’ultima metà di secolo hanno capito che insieme avrebbero potuto fare la differenza, cambiare in meglio la vita delle persone.
In una sola parola, è così che nasce la biomedica.
E’ con la biomedica che oggi è possibile dare braccia, mani, gambe, ai bimbi con malformazioni genetiche o mutilati dalle guerre, oppure ancora a chi è vittima di gravi infortuni.
Purtroppo, però, non tutti possono beneficiare di queste innovazioni straordinarie, se consideriamo che una protesi mioelettrica oggi può arrivare a costare fino a 80mila euro.
Nel 2014 un gruppo di giovani italiani ha deciso di “aprire” la biomedica, di diffonderla, spiegarla, renderla fruibile a tutti. Nasce così Open BioMedical Initiative.
«Non nasciamo per cambiare la biomedica, che esiste e funziona bene, vogliamo portarla al servizio del mondo, a sei miliardi di persone», racconta Bruno Lenzi, il giovane ingegnere marchigiano di 28 anni che poco più di un anno fa con altre 6 persone ha fondato il primo embrione di quella che oggi è una community con 3 progetti attivi e oltre 100 volontari in tutto il mondo.
Sono loro i vincitori del FunkyPrize 2015, il premio per i migliori progetti di innovazione in intitolato alla memoria di Marco Zamperini, pioniere del web in Italia. Su OBM Initiative «c’è tutto il pensiero FunkyPrize», ha scritto sul sul blog Paola Sucato, moglie di Marco e animatrice del premio. Perché, ha motivato, «il digitale deve migliorare la vita delle persone, il digitale è connessione, scambio e cooperazione, scambio e cooperazione generano innovazione, innovazione è uso creativo di ciò che esiste già, il digitale è qui e ora. Ho la presunzione di dire che anche al secondo anno, Marco ha ispirato e guidato la selezione e la scelta. Nulla capita mai per caso, e le coincidenze sono sacre, anche se non se ne distinguono spesso le motivazioni e i confini».
Da Internet of Things a Internet of People, il manifesto di OBM
Ma OBM Initiative non è affatto una semplice community di makers e smanettoni. E’ una filosofia, un manifesto politico, una religione.
Non sono una società, ma un’associazione, lo fanno perché ci credono e perché vogliono davvero cambiare il mondo. Ogni progetto viene pensato, disegnato, sbagliato, rifatto.
Se provi a chiedere a Bruno – mentre con un’orecchio risponde alle domande e con l’altro è impegnato a organizzare la presenza del suo gruppo alla prossima Maker Faire di Roma ed a “Futuro Remoto” a Città della Scienza a Napoli – «ma vi sentite più tecnici, makers o hackers?» ti risponde convinto: «non ci avviciniamo a nessuna categoria, la definizione che più si avvicina al nostro lavoro è quella di volontari, che mettono in campo le proprie competenze, il proprio tempo, per realizzare delle tecnologie open source e a basso costo».
«Internet – secondo Bruno – esiste per creare un ecosistema, un sistema di feedback. Dobbiamo essere bravi a mettere insieme Internet degli oggetti e Internet delle persone. Per un’azienda l’intranet aziendale è l’obiettivo, per noi è il punto di partenza, puntiamo sulle persone, ogni persona deve sentirsi protagonista».
Possono farlo tutti, quindi? Bruno ci crede, mentre sembra tracciare le linee guida di un nuovo umanesimo digitale: «la realizzazione di un progetto biomedicale non è complessa, difficile è far capire alle persone che possono farlo».
Così nascono le protesi low-cost di Open BioMedical
Tutti possono vivere meglio, tutti hanno il diritto di vivere meglio. Non importa se la protesi stampata in 3d non sarà bella come quelle (costosissime) attualmente in circolazione.
Le protesi classiche costano migliaia di dollari, cifre che rappresentano una vera barriera: oggi si calcola che 15mila ospedali e centri umanitari, 2 miliardi e mezzo di persone nei paesi emergenti e 100 milioni di persone nei paesi industrializzati non riescono ad accedere alla biomedica. Questo è l’ostacolo che l’OBM vuole superare.
«Sappiamo di produrre dei prodotti che non sono al pari di quelli che costano 10 volte di più», ammette il giovane ingegnere. «C’è chi può permettersi la protesi da decine di migliaia di euro e c’è chi non può permettersela, la differenza è poter dare questa scelta. Una protesi tecnicamente inferiore, certamente, ma funzionale e, soprattutto, accessibile. Vogliamo dare gratuitamente un servizio a tutte quelle persone che non possono permettersi alcuna tecnologia».
Sì, gratuitamente. O quasi. L’obiettivo dei ragazzi di Open BioMedical Initiative è quello di permettere a persone, ospedali, centri, comunità umanitarie, in paesi sviluppati e non, di poter beneficiare di tecnologie biomedicali (hardware e software) low-cost che, seppur tecnologicamente inferiori ma ugualmente sicure, possano essere una scelta quando completamente assenti o una possibilità per chi le preferirà. Il tutto in maniera open source e collaborativa.
Sognano in grande questi di OBM, e il FunkyPrize se lo meritano tutto. Partiti con un gruppo su Facebook oggi hanno un sito molto curato, con contenuti redatti in doppia lingua, italiano e inglese. E stanno anche lavorando per ottenere (primo caso in Europa e forse nel mondo) tutte le certificazioni di sicurezza per i loro progetti.
Ne sa qualcosa Fabia, la ventiduenne che ha raccontato in un diario su CheFuturo! la sua esperienza con Bruno e OBM Initiative: «serviva una persona senza una mano, io ho trovato loro che una mano me la possono dare. Letteralmente. Insomma, una mano vera».
Aldo V. Pecora
twitter: @aldopecora
Scheda: dalle mani stampate in 3d all’incubatrice low-cost, i 3 progetti OBM
WIL (Wired Limb)
Una protesi meccanica che ha lo scopo di sopperire alla mancanza di un arto grazie ad un azionamento gestito dal movimento del polso e da un sistema di tiranti. Segue i principi dell’Open Source con l’intera documentazione consultabile online ed è costituita da materiali facilmente reperibili ed a basso costo come ABS e PLA. Tutte le sue parti sono completamente riproducibili tramite qualsiasi modello di stampante 3D.
BOB (Baby On Board)
Bob è un incubatrice neonatale creata con dei componenti il cui costo è assai trattenuto, riproducibile ovunque tramite istruzioni di realizzazione liberamente consultabili online, realizzabile mediante stampante 3D. BOB vuole rispondere ad una specifica esigenza: tra le diverse cause di morti neonatali è stiamto che circa il 75% avviene la prima settimana di vita ed è spesso dovuto a mancanza di apparecchiature biomedicali, troppo onerose o di difficile gestione.
FABLE (Fingers activated by low-cost electronics)
Una protesi elettromeccanica, destinata a chi ha subito un’amputazione o è affetto da malformazione congenita. Attraverso l’acquisizione di impulsi mioelettrici generati dalla contrazione dei muscoli prossimi al gomito, si attuano precisi movimenti delle dita. L’elettronica è il fulcro del sistema ed è compatta, a basso costo e completamente reingegnerizzata per offrire una protesi ovunque riproducibile e tecnologicamente avanzata.