Un’analisi sulla situazione dell’ecosistema delle startup italiane e perché tocca al pubblico farsi carico della loro crescita
Pubblichiamo un intervento di Andrea Danielli, cofounder di Thinkalize, sul mercato delle startup e del venture in Italia, con un’analisi del fenomeno dal suo punto di vista.
Ho avvicinato questo mondo nel 2006 circa, da completo ignorante (laurea in filosofia, dottorato non concluso). Con degli amici abbiamo iniziato a partecipare a call for ideas, concorsi, contest. Di idee ne abbiamo avute tante, una l’abbiamo seguita a lungo, era un sito di social eating (nel 2008) che abbiamo poi abbandonato per due ragioni: non eravamo appassionati di cucina, non ci vedevamo un gran business. E continuo a non vederlo negli attuali modelli.
Da più di un anno sto lavorando in Thinkalize, dove siamo andati ben oltre il business plan e una beta per pochi tester. Ho partecipato da spettatore a diverse serate di investitori, ho fatto un primo incontro con dei business angel (altri ne ho fatti in passato), molto utile per chiarirci le idee ma, purtroppo, non abbiamo raccolto capitali.
Non mi ritengo un esperto, dò un punto di vista certamente parziale, che spero di aver descritto in premessa.
Partiamo dal capire che cosa sia una start up
Cercando un po’ di definizioni e ragionamenti su che cosa è una start up, ho incontrato questi siti autorevoli, e mi sono appuntato quelle che mi paiono più utili: (tratte da Business Insider e da Forbes)
- Steve Blank, professore a Stanford, descrive le start up come “un’organizzazione costituita per cercare modelli di business ripetibili e scalabili” [“an organization formed to search for a repeatable and scalable business model.”]
- Neil Blumenthal, co-CEO di Warby Parker, afferma che “una startup è un’azienda che lavora per risolvere problemi laddove la soluzione non è ovvia e il successo non è garantito”. [“A startup is a company working to solve a problem where the solution is not obvious and success is not guaranteed”]
- Per Paul Graham, di Y-combinator, “una startup è un’azienda progettata per scalare molto rapidamente. E’ questa attenzione sulla crescita priva di limiti geografici che distingue una startup da una piccola azienda”. [“a startup is a company designed to scale very quickly. It is this focus on growth unconstrained by geography which differentiates startups from small businesses.”]
- Infine, Alyson Shontell: “una società di pochi anni che potrebbe ancora fallire facilmente”. [“a few-year-old tech company that could still easily fail.”]
Verrebbe pertanto da dire che una start up è un’azienda che ha bisogno di capitale di rischio, perché segue un percorso di sviluppo imprevedibile. Mi sento meno folle a pensare che un investitore dovrebbe essermi utile dall’inizio, e non solo dopo le prime fatture. Se siamo d’accordo, ne deriva, conseguentemente, che non si finanzia una start up in banca indebitandosi e ponendo a garanzia la casa o una fideiussione. Lo avete già fatto? Non è colpa vostra.
Alcuni miti da sfatare sulle startup
Leggiamo le IPO e le acquisizioni negli Stati Uniti, cifre che fatichiamo a esprimere correttamente e a capire: miliardi di dollari? Sono l’equivalente di manovre finanziarie del nostro Paese.
C’è una startup premiata e apparentemente solida che, mi confessano, è sempre in una condizione tra il grande salto di qualità e il fallimento
In parte qualcuno sospetta che ci sia una bolla (leggete, qui e qui), di certo non pare un’eresia affermare che si siano spostati molti investimenti nel Venture Capital: ci troviamo di fronte a un enorme afflusso di liquidità nei mercati finanziari, causato da banche centrali molto sportive, rendimenti minimi per le obbligazioni, petrolio ai minimi, corsi azionari gonfiati che potrebbero veder calare presto il loro valore alla prima stretta della FED. Non sarebbe stupido investire in un’azienda, soprattutto se ha successo.
Comunque non è un problema che ci riguarda:
- le startup native italiane non interessano ai grossi investitori danarosi, a meno che non si trasferiscano e aprano una sede negli States
- le exit e le acquisizioni italiane si fanno con cifre di un paio di ordini di grandezza inferiori. Ci riguarda solo per la percezione e la cultura un po’ distorta: dopo il film The social network i VC nostrani sono stati inondati di stronzate che valevano milioni, sulla carta. La cosa è rientrata, la crisi nel frattempo ha iniziato a bussare alle porte di tanti disoccupati e precari che hanno smesso rapidamente di sognare.
Ok, fin qui il sogno, ma la realtà…
I primi startuppers italiani si stanno facendo male. Conosco splendide realtà che vogliono chiudere perché non guadagnano a sufficienza per pagarsi i costi e uno straccio di stipendio (rarissimo tra i founder). C’è una startup premiata e apparentemente solida che, mi confessano, è sempre in una condizione tra il grande salto di qualità e il fallimento – e fatica a trovare investitori. Ho incontrato un altro premiato, incensato, che ha in effetti uno dei prodotti più innovativi che conosca che, dopo due anni di lavoro, non è ancora partito con la produzione: “mancano gli investitori”.
Una società sul mercato da parecchi anni, che non si atteggia da startup, è in trattativa da mesi con un fondo che si trova bloccato causa nuova normativa. E nel frattempo il suo prodotto invecchia. Poi che dire delle decine di doppilavoristi che conosco: dodici ore e più al giorno per due lavori, uno li mantiene, l’altro li appassiona. Non possono licenziarsi per una ragione semplice: non troverebbero facilmente un buon lavoro al prossimo giro. Ah, e non esiste sussidio di disoccupazione per chi si dimette.
Dal canto mio, le startup sono come i giovani che cercano lavoro: devi accontentarti di essere pagato poco, perché sei giovane, però devi già avere esperienza (ne parlo anche qui).
Eppure nella realtà ci sono realtà che vanno benissimo, anche in Italia
Però poi ci sono quelli che funzionano. E’ vero. Allora ho provato ad analizzare che cosa abbiano che io non ho – a parte i contatti e forse un po’ più di friends’ money, mio limite se non so farmeli. Ci sono quelli che offrono i modelli di business di successo sviluppati altrove, quelli che sfruttano qualcuno per offrire un servizio a qualcun’altro (servizio a volte inutile, abbiamo bisogno di farci consegnare il kebab a casa?). Tolti questi, ci sono quelli veramente bravi, e sono tanti, così bravi che emergono anche da un ambiente come questo, purtroppo però si trovano in tasca due noccioline rispetto al valore generato.
E’ tutto un hype?
Speravamo di introdurre anche in Italia un modo diverso di affrontare l’imprenditoria che, in altri paesi, è stato trapiantato in blocco e ha funzionato.
Ne abbiamo bisogno perché dobbiamo creare nuovi posti di lavoro, siamo uno dei paesi che ha la più alta disoccupazione giovanile e il nostro PIL è inchiodato da vent’anni. Lo potremmo fare perché abbiamo idee, ingegneri eccellenti, ottimi designer e programmatori. Forse abbiamo un mercato troppo piccolo, con una profonda inerzia all’innovazione e parliamo una lingua in estinzione, ma si può rimediare.
Che cosa manca?
Investitori che ci facciano scalare in tempi utili. In Israele lo stato ha investito soldi veri, e sono miliardi di dollari. Da noi i Governi hanno fatto il registro delle startup innovative e qualche sgravio fiscale – poco utile se non fatturi…
Invitalia Sgr interviene a un livello troppo alto: la mortalità è nella fase iniziale, in questa terra di nessuno dove gli angel hanno pochi soldi e poche competenze tecnologiche per capire se si trovano di fronte a una buona idea. Ahimè, i molti che conosco sono laureati in economia e finanza: spettacolari lato business modeling, con lacune lato vision. Di concorsi da 25-50k e percorsi di incubazione posso dire che sono buoni solo a far intestardire i founder: con quella cifra duri pochi mesi.
Servono poi i clienti: ci arrivi se investi in comunicazione, se hai dei commerciali, i soldi per la benzina e il noleggio auto. Altrimenti è dura. Quindi sì, senza investitori e veicoli in grado di intervenire in fase seed, non ci sarà movimento. Repetita iuvant.
I premi alle startup servono ma non possono bastare da soli
Premi e riconoscimenti sono un giusto modo per dare qualcosa indietro a chi si è sacrificato per anni e ha lavorato nell’ombra. Comunicare, condividere esperienze di successo è utile per imparare da quelli più bravi. Dipingere un quadro migliore della realtà può avere l’effetto negativo di allontare gli interventi decisivi che servono oggi.
Lamentarsi è utile se costruttivo, altrimenti nasconde un livore che possiamo già sfogare sui social in tanti altri modi (pro o contro Belen nella lite con la Lucarelli? Pro o contro OGM, veganesimo, omeopatia?). Spero di esser stato costruttivo, la mia proposta è semplice. Senza una sponda pubblica seria e interventi immediati in fase seed, fatti da persone competenti, per qualche centinaio di milioni di euro, le nostre start up andranno in altre paesi e avranno successo lì: come insegna l’esperienza quotidiana, se ti fai le ossa nelle strade di periferia, non hai certo paura di andare a una festa di figli di papà senza invito.
Andrea Danielli