Il rapporto Global Metrics for the Environment ha stilato una nuova classifica. Valutando, con approccio data-driver, le performance relative alla salvaguardia della biodiversità, al clima e all’energia, alla salute e alla qualità dell’aria, ha premiato la Finlandia. L’Italia? Solo 29esima.
Tutela degli esseri umani e protezione degli ecosistemi: come se la cavano i vari Paesi di tutto il mondo in questi due compiti? Il nuovo rapporto di Yale Global Metrics for the Environment, in collaborazione con il World Economic Forum, ha cercato di rispondere. Valutando con approccio data-driven le performance relative alla salvaguardia della biodiversità, al clima e all’energia, alla salute e alla qualità dell’aria, per vedere chi riesce ad avvicinarsi agli standard globali e mettendo a confronto tra loro, laddove manchi uno standard, le varie realtà.
La Finlandia davanti a tutti
C’è un vincitore? Sì ed è la Finlandia, seguita da Islanda, Svezia (in foto il parco nazionale Stora Sjöfallet), Danimarca e Slovenia. La Finlandia si è guadagnata il primo posto grazie all’impegno legalmente vincolante a raggiungere, entro il 2050 una società carbon-neutral, un piano costruito sulla valutazione di indicatori concreti. L’obiettivo più vicino è quello, entro il 2020, di affidarsi per il 38% del consumo interno alle rinnovabili -già oggi, insieme al nucleare, coprono i due terzi dell’elettricità.
E l’Italia?
Circa un terzo dei paesi considerati dall’environment performance index (EPI, l’indice in continua evoluzione usato per le valutazioni), come precisano gli esperti di Yale, ha successo nel ridurre le emissioni.
Non tanto per efficaci politiche legate al clima ma per la progressiva decarbonizzazione.
L’Italia è al 29esimo posto della classifica, in discesa rispetto all’ultima valutazione. Cercandola sulle mappe di Global Metrics for the Environment salta subito all’occhio che è annoverata tra i “no data” per le policy legate a efficienza energetica e rinnovabili, ma si colloca (anche se per poco) tra i Paesi virtuosi nelle emissioni di gas serra legate ai combustibili fossili
Chi c’è in fondo alla classifica
Spostandoci in fondo alla lista troviamo la Somalia, l’Eritrea, il Madagascar, il Niger e l’Afghanistan, non nuovi alle ultime posizioni, sia dal punto di vista ambientale che umano, a causa di governi instabili e dell’eredità di quelli precedenti. Eppure anche laddove la crescita economica c’è, il prezzo da pagare è alto: più ricchezza significa più servizi e infrastrutture, così le morti per inquinamento hanno continuato ad aumentare nell’ultimo decennio.
Arrivati nel 2013 la scarsa qualità dell’aria era responsabile per il 10% delle morti a livello globale (metà della popolazione mondiale vive in nazioni con livello di inquinamento non sicuro per la salute), contro una diminuzione fino al 2% di quelle legate all’utilizzo di acqua non sicura (l’8% della popolazione mondiale ancora oggi non ha accesso ad acqua pulita).
In Cina una morte su cinque è legata all’inquinamento.
Più dell’80% delle acque reflue prodotte sul pianeta viene reimmesso nell’ambiente senza trattamenti, con conseguenze che ancora non siamo in grado di quantificare e comprendere appieno. Sempre l’80% sono i paesi che sfruttano fertilizzanti azotati nell’agricoltura ma non rispettano gli standard di efficienza, causando un inquinamento che impatta non solo la qualità dell’aria e dell’acqua ma va a contribuire al riscaldamento globale.
E la biodiversità?
Badandosi sui dati del 2014, abbiamo perduto oltre 2,5 milioni di chilometri quadrati di foreste, un’area pari a due volte il Peru. Allo stesso tempo, rispettivamente circa il 15% e l’8% degli habitat terrestri e marini sono protetti, un traguardo che avvicina agli standard globali per la tutela della biodiversità anche se non sempre coincidono con gli areali di diffusione delle specie a rischio.
Molte delle aree protette sono in zone marginali, non dove l’agricoltura e la crescente antropizzazione stanno privando la fauna selvatica dei territori che ha sempre occupato.
Uno degli esempi che spiccano nel rapporto è il disastro ambientale che nel 2015 ha devastato le foreste dell’Indonesia, nel Kalimantan, incendi provocati dall’uomo per far spazio alle colture intensive che hanno distrutto oltre 20.000 chilometri quadrati di foreste (e con esse la fauna che le abitava), causando 20 morti e lasciandosi alle spalle più di mezzo milione di persone con patologie legate all’apparato respiratorio. Oltre all’immane costo ambientale, quello economico è stato stimato in 14 miliardi di dollari. La perdita di funzioni ecosistemiche come la depurazione dell’acqua o dell’aria offerta dagli alberi, ogni anno, comporta una perdita stimata tra i quattro e i 20 bilioni di dollari.
La nota dolente riguarda la pesca: il 34% delle riserve ittiche mondiali è sovra-sfruttato per mancanza di policy e controlli severi unita alla mancanza di dati concreti sul pescato (riportati in modo incompleto o non pervenuti). La Polonia occupa l’ultima posizione dell’EPI relativo alla pesca, con uno spaventoso 93% di riserve sovra-sfruttate nel Baltico. Una strategia per farvi fronte risiede nell’istituzione di Zone Economiche Esclusive, che permetterebbero di gestire con maggior controllo le attività di pesca. La Namibia ne ha già beneficiato: prima dell’istituzione della sua EEZ accedeva solo il 5% delle risorse ittiche, che sono crollate del 90% per il sovra-sfruttamento di Sudafrica, Russia, Ucraina e Spagna. Dopo gli anni ’90, con la EEZ, il recupero è stato del 30%.
Ottenere e analizzare i dati: non sempre è una passeggiata
Ma il problema dei dati si fa sentire anche in altri punti del rapporto, perché laddove i governi o chi per loro non riescano a fornirne, subentrano spesso i satelliti. Ad esempio, quando si tratta di copertura forestale, i dati da satellite non sempre permettono di distinguere foreste naturali e artificiali e avere così stime precise. Due esempi positivi sono il Paraguay e l’Argentina, che negli ultimi anni hanno preso provvedimenti contro il disboscamento selvaggio. I risultati si vedono, anche se dovranno essere mantenuti negli anni per poter essere considerati traguardi concreti: il primo ha registrato una diminuzione nella perdita di copertura arborea del 40%, la seconda del 60%.
Il Brasile era riuscito a dimezzarla tra il 2003 e il 2011 ma ha visto un nuovo crollo a partire dal 2012.
Grandi assenti dal rapporto (o presenti con dati monchi) rimangono la perdita di specie animali e vegetali e quella delle zone umide, la sicurezza nucleare e la qualità dell’aria indoor -ne abbiamo parlato qui– oltre a tassi di riciclo e conseguenze e adattamenti legati al cambiamento climatico. Per una valutazione sempre più precisa e data-driven, che possa incoraggiare i governi a scalare la classifica per buone pratiche umane e ambientali, come spiegano gli esperti di Yale la prima necessità sono leggi e policy rigide. Che vincolino alla raccolta dei dati su tutte le attività antropiche, dalla pesca all’utilizzo delle infrastrutture.
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