Intervista all’amministratore delegato di Cisco Italia che racconta le strategie di investimento della multinazionale americana e racconta perché i numeri del digitale in Italia fanno ben sperare
«L’unico indicatore positivo nell’industria italiana viene dalla crescita dell’Ict. Il resto, da anni, cala. L’Italia sta recuperando terreno sul digitale e tutti gli indicatori sono positivi. E la situazione non può che migliorare». Agostino Santoni, 46 anni, amministratore delegato di Cisco Italia e presidente di Assinform (l’associazione italiana di information technology legata a Confindustria) non nasconde l’ottimismo. Il report fatto da Assinform, pubblicato il 5 luglio, traccia un quadro di crescita negli investimenti in Italia in tecnologia. Come Cisco si è impegnato in 100 milioni di investimenti in Italia per far crescere il digitale. E a StartupItalia.eu racconta la strategia della multinazionale americana per aumentare la digitalizzazione del Paese. Partendo dalle scuole, dai talenti. E dalle startup.
Durante una conferenza organizzata da Digital Magics ha definito l’«Italia un paese in via di sviluppo digitale», e che il bello sarebbe venuto ora. Ci può spiegare meglio il senso della sua frase?
«Se guardiamo gli indicatori relativi all’industria italiana dell’information technology vediamo che negli ultimi 15 anni in Italia abbiamo gli investimenti più bassi in Europa in questo settore. A prima vista è un dato negativo. Ma a me piace vederlo come una grande opportunità. Quello che sta avvenendo oggi è che la tecnologia è molto più semplice e più facile da produrre e consumare. Oggi c’è tanta tecnologia, a costi più bassi, ed è più semplice per ogni azienda averla e inserirla nei processi produttivi. E’ vero quindi che non si è investito finora. Ma collegando questi due punti è evidente che oggi abbiamo la possibilità di accelerare davvero la digitalizzazione del Paese. Abbiamo investito poco, ok, ma adesso possiamo valorizzare gli asset che abbiamo e recuperare.
Un esempio?
«Siamo il Paese della tecnologia mobile. Per numero di telefonini, di sim. E se guardo al mondo delle applicazioni oggi siamo nel mobile first. E’ un esempio di opportunità da sfruttare».
Dal suo osservatorio, come Cisco e come Assinform, qual è la situazione del digitale in Italia?
«La situazione che abbiamo fotografato nello studio pubblicato oggi (5 luglio, ndr) di Assinform è che siamo tornati a mettere segno più alla nostra industria. Grazie ai servizi cloud, ai big data, all’internet of things. Sono tutti i settori che stanno contribuendo al segno più. E’ ancora un livello basso, ma cresce ed è in controtendenza rispetto all’industria italiana che sta decrescendo. Non andiamo a velocità che ci aspettiamo, ma è un segnale».
Il Governo ha annunciato esattamente un anno fa 12 miliardi per la banda larga. A che punto siamo e cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi anni?
«Il percorso fatto dal Governo sulla banda larga è stato rapido e innovativo. Rapido perché sono usciti i bandi di gara in tempi brevi. Innovativo perché stato certificato dall’Unione Europea che lo ha validato e preso a modello. Adesso dobbiamo essere tutti concentrati a completare le gare che porteranno a digitalizzazione infrastrutturali. Ma, oltre all’infrastruttura, dobbiamo anche incrementare le competenze. Dobbiamo aumentare la connettività tra le imprese e fare crescere il commercio elettronico delle aziende. Quindi, da un lato infrastruttura, che è indispensabile, dall’altra formazione: dobbiamo fare entrambe le cose a buona velocità. Sarà questa la leva della crescita per i prossimi anni».
Spesso sentiamo parlare di digital disruption contrapposta a digital trasformation. Lei che idea ha?
«Non so se ne aggiungo una terza o è la somma delle due. Questo periodo è caratterizzato dal fatto che tutte le aziende diventeranno digitali. E’ un fatto e non c’è via alternativa. Il tema non è quanta tecnologia useranno, ma quanti strumenti darà la tecnologia alle persone. Io sono convinto che questa rivoluzione industriale metterà al centro le persone. Importanti non sono le tecnologie acquisite, ma come verranno usate dalle aziende per le persone. E sono queste le aziende che vinceranno la sfida dell’innovazione».
Avete sottoscritto il fondo di Invitalia Ventures con 5 milioni seguendo una logica di mercato del venture classica per far crescere le startup. In Italia intanto in questi mesi sta emergendo un altro trend che vuole declinare l’innovazione sul tessuto economico esistente raccolto dietro lo slogan: «le Pmi adottino le startup». Lei che posizione ha in merito?
«Noi abbiamo un programma che abbiamo chiamato è Digitaliani. All’interno del programma c’è quello che chiamiamo innovation exchange. Ovvero, individuare un percorso per talenti e startup. Abbiamo creato una rete di 100 mila studenti, con un focus su istituti tecnici e università. La seconda è alimentare il venture capital italiano, e siamo molto soddisfatti dell’investimento in Invitalia Ventures. La terza è aver stretto partnership con acceleratori e incubatori come H-farm, Luiss Enlabs, Talent Garden o il Barcamper di Gianluca Dettori. Sono questi i posti dove sta avvenendo qualcosa in Italia. E lì vanno i talenti e le startup. Abbiamo deciso di investire 100 milioni nell’innovazione in Italia e questa è la nostra pipeline. Ora, l’ambizione di questo programma è impattare in due industrie in Italia: agroalimentare e manifatturiero. Vogliamo costruire una rete di talenti che dall’idea arrivino all’impresa attraverso i venture, gli acceleratori, la ricerca di talenti nelle scuole. E vogliamo connettere gli attori dell’innovazione con le aziende tradizionali. E’ questo il senso del nostro programma. Vogliamo trovare una strada specifica dell’Italia all’innovazione»