Venture capital e grandi gruppi stanno investendo sempre di più sull’hardware: 1,7 miliardi nel primo semestre 2016. Facebook ha aperto un laboratorio da 2 mila metri quadri. Snapchat è diventata una “camera company”. E Google ha battezzato un nuovo corso
Benvenuti nel “Rinascimento dell’hardware”. È la definizione che dà di questi mesi Bolt, un venture capital che nell’hardware ci investe. Si dirà: definizione interessata. Forse. Ma non solo: le cifre degli investimenti (in decisa crescita) e le mosse delle grandi tech company (soprattutto di Facebook e Google) confermano la suggestione.
Investimenti a 1,7 miliardi in un semestre
Nella prima metà del 2016, le startup specializzate nell’hardware hanno raccolto 1,7 miliardi di dollari. L’impennata è recente: la soglia del miliardo è stata superata per la prima volta solo alla fine del 2014. I round sono stati 120. È un numero in linea con lo stesso periodo dello scorso anno (arrivato a 123) ma triplo se confrontato con il 2013. Più risorse, operazioni costanti: significa un importo medio (poco oltre i 14 milioni) in aumento.
La maggior parte delle startup tecnologiche preferisce il software. Ma stampanti 3D, visori per la realtà virtuale, droni, action cam e fitness tracker stanno solleticando l’interesse di venture capital e grandi gruppi, grazie a tempi di sviluppo e costi ridotti.
Le prime 10 exit (2014-2016)
Le exit non dicono tutto. Ma danno alcune indicazioni. Quelle miliardarie sono ancora poche (sei). Con la sola eccezione di Oculus, hanno coinvolto società fondate prima del 2010. Quindi giovani ma non giovanissime. Queste sei exit si dividono in parti uguali tra acquisizioni e Ipo. Nel primo caso c’è sempre la firma di una big Usa (Oculus acquisita da Facebook, Nest da Google, Beat da Apple). Chi ha scelto la borsa (Square, Fitbit e GoPro) sta invece incontrando qualche difficoltà.
1 – Square offre dispositivi per integrare i servizi finanziari con il proprio smartphone. È legata a Twitter, con il quale condivide pezzi di azionariato, il fondatore e il ceo (Jack Dorsey). Sta per compiere il suo primo anno in borsa. Arrivato a Wall Street con una valutazione di 3 miliardi, oggi ha una capitalizzazione di 3,7. Le azioni zoppicano: il titolo vale 11,6 dollari, circa un terzo rispetto ai massimi toccati ad aprile.
2 – Fitbit è stata una delle società apripista dei tracker per il fitness. Fondata nel 2007, è arrivata in borsa nel giugno 2015. Sette mesi dopo il prezzo era già sceso sotto quello d’esordio. Oggi ha una capitalizzazione di 3,3 miliardi, valore dimezzato rispetto ai massimi di agosto 2015.
3– Nest, fondata da due ex ingegneri di Apple, è la società scelta da Google per ampliare la gamma dei propri dispositivi (dai termostati intelligenti ai sistemi di sicurezza). Un investimento del 2014 da 3,2 miliardi di dollari.
4 – Beats è stata acquisita da Apple nel maggio del 2014. Prezzo: 3 miliardi, incassati dai fondatori Jimmy Iovine e Dr. Dre. Per le loro cuffie di design ma anche per spegnere (e assorbire) un concorrente nella musica in streaming.
5 – GoPro ha spinto il settore delle action cam e ha oggi una capitalizzazione di 2,3 miliardi. Quotata nel 2014, con un’altra Ipo di questa lista (Fitbit) condivide le difficoltà del titolo, dimezzato rispetto ai massimi. Forse Fitbit e GoPro non saranno diventate commodity, ma hanno contribuito ad animare un mercato sempre più affollato. Molto dipenderà dalla loro capacità di diversificare.
6 – Oculus VR è stata assorbita da Facebook per 2 miliardi. È la terza maggiore acquisizione di Menlo Park dopo Instagram e WhatsApp. Come ha sottolineato lo stesso Mark Zuckerberg, Facebook “ha ancora molto da fare sul mobile ma siamo in una posizione tale da poterci focalizzare su quello che le piattaforme diventeranno”.
7 – DropCam è arrivata sotto l’ombrello di Google nel 2014 per 555 milioni (tramite Nest). Queste telecamere fanno parte della campagna acquisti con la quale Mountain View completa la squadra dei dispositivi di Nest.
8 – MakerBot è la principale exit nel settore delle stampanti 3D: 403 milioni, sborsati dalla statunitense Stratasys.
9 – Misfit è uno dei maggiori investimenti di un marchio tradizionale nel mercato del wearable. Lo scorso novembre, Fossil (produttore di orologi) ha speso 260 milioni di dollari per gli smartwatch del brand americano.
10 – SmartThings è stata acquisita da Samsung per una cifra intorno ai 200 milioni di dollari. Il gruppo coreano punta sulla IoT. E per farlo pesca una società che si era fatta conoscere (nel 2012) su Kickstarter: il progetto aveva richiesto 250 mila dollari e raccolto 1,2 milioni.
Big 5 alle grandi manovre
Alcune sono nate come hardware, altre si stanno allargano a una produzione fatta in casa. Ma tutte le 5 maggiori società Usa per capitalizzazione si stanno muovendo. Ecco come.
Apple è, da sempre, anche hardware. Tra smartphone, tablet e laptop, la nuova sfida però è diversificare. Perché gli iPhone rappresentano ancora una fetta troppo elevata del fatturato di gruppo. Anche la Mela ha investito di recente, in un centro di sviluppo hardware da costruire a Pechino. Costo: 45 milioni di dollari.
Microsoft delle big 5 è quella che si muove con più cautela. Lo scotto di Nokia è ancora fresco e ha spinto il ceo Satya Nadella a spingere la strategia del gruppo in direzione contraria: niente hardware mobile, più cloud e servizi. Senza dimenticare però che Microsoft continua a marchiare i suoi dispositivi, come laptop e XboX.
Amazon ha voluto i suoi tablet (i Kindle) e il suo smartphone (anche se il Fire è stato un flop). Ha appena lanciato una nuova versione della Amazon Fire TV. Presidia l’IoT con Echo ma non si accontenta: ha investito 35 milioni (tramite il fondo Alexa) su Ecobee, che sviluppa termostati intelligenti e si pone in concorrenza con Nest. Senza dimenticare il futuro delle consegna con i droni e la fetta crescente di gadget a marchio Amazon venduti sulla piattaforma di e-commerce. La traccia è quella ripetuta da Bezos alla diffusione dell’ultima trimestrale: “Vogliamo costruire prodotti premium a prezzi non premium”.
Facebook e Google non vogliono rimanere indietro. Menlo Park ha legato il successo della prossima decade proprio all’hardware. E Big G ha inaugurato un nuovo corso fatto si smartphone, IoT e intelligenza artificiale. Più che ritocchi: mutazioni genetiche. Ecco perché meritano due capitolo a sé.
Per Google “è solo l’inizio”
Google ha detto addio al progetto Ara, il suo smartphone componibile. È una sterzata e non una rinuncia. Tutt’altro. Le acquisizioni di Nest e DropCam sono state il prologo. L’evento del 4 ottobre la conferma: Google ha aperto una fase nuova, con tanto, tanto hardware. Lo si capisce già dal titolo che Mountain View ha dato alla conferenza di New York, un concretissimo “Made by Google”. I Pixel, prodotti con Htc, hanno aperto la serata: sono la sintesi di quel matrimonio tra hardware e software (con Android e Google Assistent) che rappresenta le ambizioni di Big G. Ma hanno sfilato anche altri quattro dispositivi.
Google Home lancia la sfida ad Amazon Echo. E’ il centro di gestione della casa intelligente, dalla musica ai film, dalle ricerche sul web al monitoraggio degli elettrodomestici connessi. Anche in questo caso, l’intelligenza artificiale resta il fulcro, con un occhio al design e alla personalizzazione dell’oggetto, anche al di là delle sue funzioni.
Chromecast Ultra è il kit per la smart tv, pensato per l’intrattenimento in ultra hd. Google Wifi è un set modulabile di postazioni (da una a tre) per gestire e ottimizzare le connessioni senza fili in ogni angolo della casa. Passo avanti anche sulla realtà virtuale: la piattaforma Daydream è integrata nei Pixel e accompagnata da Daydream View, un visore che va ben oltre il suo antenato, il Cardboard.
Made by Google però non è stata una semplice presentazione. E’ stata la liturgia con la quale il ceo Sundar Pichai ha battezzato l’hardware marchiato “G”. Il capo della divisione, Rick Osterloh, non è sfuggito al tema. Lo ha affrontato con una domanda, una risposta e un proposito.
Perché puntiamo sull’hardware proprio adesso? Perché il futuro è l’intersezione di hardware e software con l’intelligenza artificiale al centro. E questo è solo l’inizio
Facebook: l’hardware nel piano decennale
Ricordate il piano decennale presentato da Mark Zuckerberg durante la F8 dello scorso aprile? Indicava le priorità sul lungo periodo: intelligenza artificiale, connettività e realtà virtuale. Due su tre non esisterebbero senza hardware. Oculus è il centro intorno al quale aggregare le altre acquisizioni rivolte a vr e realtà aumentata (vedi Pebbles, Surreal Vision, Two Big Ears). La connettività passa per lo sviluppo di droni e satelliti. A luglio è decollato Aquila, il velivolo a energia solare che dovrebbe fare da ponte per le connessioni del futuro.
L’hardware è diventato così importante che Facebook ha deciso di aprire a Menlo Park un laboratorio di oltre 2 mila metri quadri. Si chiama Area 404. È il luogo in cui si sviluppa l’hardware del presente (Oculus e Connectivity Lab) e si cullerà quello del futuro. Perché? “Abbiamo capito – si legge in un post ufficiale – che ingegneri di diversi team, che condividano spazi ed esperienze, possono garantire ai nostri progetti un progresso più rapido”.
S’incastra in questa struttura la recente acquisizione di Nascent Objects. La startup ha sviluppato una piattaforma che consente di collegare moduli di hardware. Una tecnologia che potrebbe essere rivolta alla creazione di un prodotto finito (una sorta di project Ara dell’IoT?). Ma la priorità è un’altra: usare la piattaforma per accelerare lo sviluppo. Lo ha spiegato Regina Dugan, vicepresidente di Facebook, dando il benvenuto a Nascent Objects: “Immaginate di disegnare, costruire e sviluppare hardware in alcune settimane. E non in mesi o anni. Insieme, speriamo di creare hardware a una velocità simile a quella dei software”.
Oltre l’app: che cosa farà Snap Inc.
Fin qui la storia di chi ha compreso una cosa: nessuno, per quanto grande, può sperare di tenere la posizione. O si cresce (differenziando) o si indietreggia. Tra gli emergenti che hanno capito in fretta la lezione c’è Snapchat. Il suo fondatore, Evan Spiegel, non si è accontentato quando Mark Zuckerberg gli offrì 3 miliardi. E adesso che l’app di miliardi ne vale più di 20, amplia gli orizzonti. Guardando all’hardware. Il 24 settembre Snapchat ha lanciato gli Spectacles, occhiali con fotocamera (sviluppata internamente) che gira clip da 10 secondi e (via wifi o bluetooth) dialoga con l’app.
Spiegel, in un’intervista al Wall Street Journal, ha definito gli Spectacles “un giocattolo”. Se non è un bluff, poco ci manca. Perché, in contemporanea con il lancio degli occhiali, Snapchat ha cambiato nome. Adesso si chiama Snap Inc., un gruppo che va oltre l’app e diventa altro. Che cosa? Si definisce una “camera company”. Obiettivo: “reinventare le videocamere” per “migliorare il modo in cui le persone vivono e comunicano”. Hardware, fortissimamente hardware.
Una nuova generazione di hardware
Ci sono venure capital specializzati in hardware, come Bolt, Lemnos Labs, Playground, Root Ventures. Ma anche i generalisti hanno aperto il proprio portafogli. Solo per citare i casi più conosciuti: Andreessen Horowitz ha investito in Jawbone e Oculus; Felicis Ventures in Fitbit e Dropcam; Khosla Ventures in Misfit e Square.
Ma qual è la chiave per affrontare il mercato? Secondo Ben Einstein, fondatore di Bolt, le nuove leve devono avere un approccio innovativo: “L’hardware deve essere il cavallo di Troia per il software”. Tradotto: le scatole vuote, per quanto pregevoli, non servono più. L’hardware è un “enabler”, un facilitatore, strettamente legato a un software (meglio se proprio). Più o meno la stessa cosa che hanno ripetuto più volte i manager di Google dal palco di New York.
La ragione, dal punto di vista strategico, è semplice: una scatola è replicabile più facilmente rispetto a quello che contiene. Per quanto brillante sia l’idea, ci sarà sempre qualcuno (una società più grande, ad esempio) in grado di farla meglio o a un prezzo minore. Se Google o Facebook possono rifare un prodotto, perché spendere milioni per acquisirlo?
La relazione con il software, invece, spiega Bolt, consente all’hardware di sfuggire l’insidia peggiore: diventare una commodity, cioè un bene a cui il mercato guarda senza badare a differenze qualitative. Per evitare questa trappola, l’hardware non può isolarsi ma fare squadra con gli altri due elementi capaci di creare valore: il software e un marchio riconoscibile.
Paolo Fiore
@paolofiore