Facebook li abbandona e molti li criticano: i simulatori di conversazione sembrano aver già fatto il loro tempo. Il futuro è nell’Intelligenza Artificiale e in Italia Userbot lo sta applicando al Customer Service
Mai provato l’ebbrezza confusa di confrontarsi a vuoto con un chatbot? Fare domande a una macchina le cui risposte a scelta multipla sono incomplete o evasive e sentire montare lentamente la rabbia dentro di sé? E poi darle libero sfogo ricorrendo a una tempesta di improperi che prendono forma sulla tastiera uno dietro l’altro? Inutile fingere indifferenza. E’ successo a tutti noi almeno una volta. Contattando un’azienda via Messenger, o discorrendo con Siri. Spesso senza ottenere risultati.
Chatbot, tra leggende del Web e perdita di tempo
Se si decide di setacciare il Web alla ricerca di esperienze d’interazione tra human e chatbot, si può facilmente trovare un ampio bestiario di racconti stravaganti. Dalle surreali conversazioni con Tobby, il programma che risponde anche alle domande filosoficamente più complesse con brevi pillole di incontrovertibile verità.
C’è anche il bot mistico
Alla leggenda del deep web dal nome Holy3, una chat a più partecipanti in cui il mistico bot Arianna sembra conoscere ogni particolare della persona che si ritrova davanti. Ma queste sono solo alcune delle esperienze che si possono vivere. Esperienze anche divertenti, si potrebbe dire, tra cui non si può fare a meno di annoverare il chatbot, ormai non più attivo, sulla pagina personale di Marco Masini per anni tartassato sempre dalla stessa domanda: “È vero che porti sfiga?”.
Il passo indietro di Facebook
La verità è che il rapporto tra programmatori informatici di risposte e utenti il più delle volte si concludono con uno scambio sterile di messaggi che non porta da nessuna parte. Anzi, porta l’azienda a rovinare, poco o tanto, la propria brand reputation.
Tant’è che Facebook, dopo aver introdotto l’uso dei chatbot per Messenger nel 2016, ha fatto un passo indietro quando si è resa conto che in più del 70% dei casi la chat non ha conseguenze utili
Alla stessa conclusione sono giunti anche siti come Gizmodo e The Verge, che li hanno definiti come frustranti e inutili, il modo più lento di usare Internet. Questo perché i chatbot mancano di empatia, fanno perdere tempo e spesso non forniscono la soluzione al nostro problema. Semplicemente non funzionano senza Intelligenza Artificiale alle spalle.
Userbot però…
Esiste però anche chi sta cercando di dare una risposta a questi problemi per rendere più facile la vita degli utenti. Il suo nome è Userbot e la startup italiana, giunta tra le finaliste di .itCup 2016, ha sviluppato una AI ibrida adattata al Customer Service che utilizza Machine Learning e Deep Learning, e che si integra su vari canali digitali supportando gli operatori umani. Una delle sue caratteristiche più interessanti è che impara dalle risposte, aumentando la sua base di conoscenza a ogni conversazione e sembrando sempre più human con il passare del tempo. I risultati sono sorprendenti, considerato lo stato attuale della tecnologia.
Se l’AI sta imparando
«Fino a oggi solo 4 utenti su 583 hanno capito che fosse una AI a rispondere – ha detto Antonio Giarrusso, ceo di Userbot – in pratica è lo 0.68% delle interazioni. I pochi che lo capiscono poi tendono a mettere in difficoltà l’AI con domande fuorvianti o fuori tema, ma il bello è che l’AI sta imparando anche da quello. I risultati migliori – ha aggiunto – li abbiamo ottenuti nell’user experience, confrontando i tempi di risposta e di risoluzione dell’AI rispetto alla controparte umana». In fin dei conti, con un attuale valore di mercato stimato sui 1.4 miliardi di dollari e in forte ascesa per il futuro, l’Intelligenza Artificiale e le sue future applicazioni sono un po’ da tutti considerate come il prossimo grande cambiamento tecnologico. E il suo utilizzo all’interno del processo di Customer Service sembra quasi un primo passo obbligato.