Un successo mancato, con stime al ribasso e valori in costante discesa che non lasciano presagire niente di buono in chiave futura, anche perché i problemi invece di diminuire continuano ad aumentare. Lo sbarco di Uber a Wall Street non è andato proprio come l’azienda sperava, tanto da dover abbassare il prezzo delle 180 milioni di azioni in vendita a 45 dollari, prima di scendere fino a 41,57 dollari al termine della prima giornata di contrattazione. L’operazione ha permesso di raccogliere 8,1 miliardi di dollari segnando una perdita pari al 7,6% per un valore societario stimato in 76,5 miliardi di dollari, ampiamente sotto la soglia dei 120 miliardi agognata fino allo scorso anno.
Il problema di Uber: non è profittevole
Al netto di una delle Ipo più grandi al mondo – la maggiore per una compagnia tecnologica statunitense dai tempi di Facebook (2012) e la quattordicesima in assoluto seppur molto distante dai 21 miliardi raccolti nel 2014 da Alibaba che comanda la speciale graduatoria – i ribassi sono proseguiti anche nei giorni seguenti, segno che gli investitori nutrono seri dubbi sull’operato dell’azienda e, soprattutto, sul suo futuro. La parabola di Uber ricorda quella della rivale Lyft, realtà più piccola e meno eterogenea dell’azienda fondata nel 2009 a San Francisco che si è quotata nei mesi scorsi senza brillare. Se sono diverse le cause del flop, uno su tutti è il limite di Uber: non è profittevole. E forse non lo sarà mai, tanto che nei documenti spediti alla Sec per quotarsi in Borsa la stessa società ha messo nero su bianco la possibilità di restare in rosso per molti anni, specificando che anche generando maggiori entrate e riducendo al contempo le spese, non c’è la certezza di incrementare la redditività.
Tante spese
Detto che la volatilità del mercato non aiuta, a preoccupare è il modello di business di Uber e i numeri che disegnano uno scenario complesso. Nel 2018 la compagnia guidata da Dara Khosrowshahi ha incassato 11,27 miliardi di dollari, con un aumento del 42% rispetto ai quasi 8 miliardi registrati l’anno precedente ma il tasso di crescita è minore rispetto al biennio 2016-2017, quando il fatturato raddoppiò abbondantemente. E le spese sono clamorosamente lievitate fino a 14,3 miliardi di dollari, con ingenti investimenti per diversificare il focus aziendale dal trasporto urbano verso diversi settori: dalla consegna di cibo a domicilio alla logistica, passando tra biciclette e monopattini, guida autonoma e taxi volanti. Progetto ambiziosi e dal notevole potenziale che però necessitano di continue e proficue immissioni di capitale.
La protesta degli autisti
Con gli utenti in aumento del 35% sull’anno precedente – 91 milioni sparsi in 63 paesi nell’ultimo trimestre del 2018, con 15 milioni di clienti che hanno ordinato pasti via Uber Eats – a protestare sono gli autisti, scesi in piazza nei giorni precedenti alla quotazione a Wall Street per chiedere più tutele sul lavoro, l’introduzione del salario minimo garantito e un contratto da dipendenti invece che da autonomi. E proprio il giorno precedente la quotazione l’azienda ha comunicato di aver trovato un accordo (si parla di una cifra attorno ai 150 milioni di dollari) con la maggior parte dei circa 60.000 conducenti attivi negli Stati Uniti che avevano portato la società in tribunale.
La fortuna dei fondatori
La falsa partenza ha lasciato scorie sul principale investitore di Uber, cioè SoftBank, che tramite il suo fondo di investimento Vision Fund ha finanziato il gruppo californiano con circa 9 miliardi di dollari (detiene una quota in Uber del 16,3%) e che di riflesso ai ribassi del titolo azionario Uber ha subito perdite presso la Borsa di Tokyo del 3,25%. L’altro lato della medaglia, quello vincente, ha i volti dei fondatori del servizio di noleggio auto a partire da Travis Kalanick, co-fondatore ed ex amministratore delegato della società, che dopo aver venduto 3,7 milioni di azioni controlla ancora il 6,7% dell’azienda. L’altro co-fondatore Garret Camp secondo le stime di Forbes deterrebbe un valore superiore ai 4 miliardi di dollari, mentre Ryan Graves, primo dipendente Uber, si accontenterebbe di 1,5 miliardi di dollari. Oltre a Benchmark Capital, Google Ventures e Lowercase Capital, tra le star che hanno scommesso su Uber troviamo Beyoncé, Gwyneth Paltrow e Jay-Z.