Il circo attorno all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea coinvolge i nostri connazionali, che ci hanno raccontato come vivono questi mesi
Undici giorni alla (potenziale) Brexit, 660mila italiani nel Regno Unito, tre storie di imprenditori che ce l’hanno fatta. Il referendum del 2016 ha interrotto un sogno, quello dell’Eldorado oltremanica, che forse non è mai stato così bello come appariva in Italia, ma per tanti ha funzionato.
Sono molti, moltissimi i nostri connazionali emigrati a Londra in cerca di fortuna. Per tanti la capitale britannica è stata solo una meta di passaggio. Per quelli che ce l’hanno fatta e sono rimasti, invece, è diventata casa. Ma cosa accadrà?
Brexit, tutto comincia con David Cameron
La vicenda della Brexit ricorda, non nascondiamolo, la politica nostrana. Una consultazione richiesta per calcolo elettorale da David Cameron, una sconfitta inaspettata, la frettolosa ricerca di qualcuno che volesse assumersi l’onere di gestire le trattative.
La scelta ricadde su Theresa May, tiepida remainer – e quindi una che non voleva andarsene dall’Europa– e fan di Margaret Thatcher: pianse quando la Lady di ferro andò a Downing Street, la prima donna a varcare quella porta da premier voleva essere lei.
Nei palazzi del potere si sapeva da subito che l’uscita era un errore. Ma Londra sperava che l’Europa balbettasse, come spesso accaduto. Non in questo caso, forse per la prima volta. Se parlassimo delle “esternalità” positive della vicenda Brexit, non è affatto un risultato trascurabile, anzi.
Diciamoci la verità: Londra era entrata in Europa più per frenare l’integrazione che per favorirla. Partecipando alle votazioni, e con il sistema di governo dell’Unione basato sull’unanimità, è sempre stata in grado di imporre freni, oltre a godere di uno status privilegiato che comportava persino il mantenimento di una propria moneta, la sterlina.
Da fuori sarà molto più difficile frenare il processo di integrazione. Senza contare che, tra le opzioni sul tavolo per mantenere i vantaggi commerciali del mercato unico, c’è un accordo sul modello di quello che consente l’accesso alla Norvegia. In quel caso, Downing Street perderebbe, però, il diritto di dire la propria. I britannici si trovano, inoltre, a dover gestire la questione della frontiera irlandese. Sangue e attentati si sono fermati nel 1998, quando l’accordo del Good Friday sospese le ostilità: il rischio è che i tafferugli riprendano.
Brexit, tre storie di italiani a Londra
Ma cosa rischiano gli italiani che hanno messo radici nel Regno Unito? Poco, secondo il console generale Marco Villani, che cita rassicurazioni istituzionali. “I diritti dei cittadini europei non verranno toccati, anche in caso di no-deal” spiega il diplomatico, che abbiamo intervistato nell’ufficio londinese di Farringdon Street. Ma molte posizioni stanno “emergendo” solo ora: gli iscritti all’AIRE (l’Anagrafe Italiana per i Residenti all’Estero) aumentano costantemente, forse per cercare di guadagnare un appiglio utile in caso di problemi a ottenere il settled status, la condizione che garantisce il diritto di restare in UK. “Ma dubito che questa mossa abbia qualche effetto” precisa.
Se restare non sarà un problema per chi lavora stabilmente, il contraccolpo potrebbe riguardare il commercio. Silvestro Morlando, che gestisce quattro pizzerie street food (“Sud Italia”) in altrettanti mercati di Londra, lo sa. “Lavoriamo con materie prime italiane, e dobbiamo cercare la soluzione prima ancora di vedere il problema” racconta mentre serve le sue specialità a Liverpool Street. I prodotti tricolore che oggi passano senza problemi alla dogana, domani potrebbero essere tassati. Per non parlare delle normative alimentari, che adesso sono allineate e in futuro potrebbero differire notevolmente.
Un approccio creativo al problema dell’import arriva da Maia Chiara Rossi, che nel suo Macaroni Liberation Front propone un menu anti-Brexit rivisitando ricette italiane con ingredienti british. E’ questa la ricetta giusta per gettare il cuore oltre l’ostacolo? “In realtà c’è anche un altro problema: la mancanza di personale – confessa – Se prima i ragazzi facevano la fila per portarci il curriculum e lavorare, oggi si fa quasi fatica a trovare chi è disposto a farlo, e tra l’altro chi viene chiede uno stipendio maggiore. Per noi che facciamo tutto in regola si tratta di un aumento dei costi importante”.
Brexit, Londra non è più attraente come una volta
“Londra è meno attraente rispetto a un tempo per i ragazzi che vogliono venire a vivere e lavorare qui” conferma Paolo Malaguti, imprenditore fintech con la sua Credit Vision. Dal suo uffcio al 39mo piano a Canary Wharf si vede l’EMA, l’Agenzia Europea dei Medicinali. Il primo pezzo di Europa a lasciare la Gran Bretagna, un paio di anni fa, e a volare in Olanda, al termine di un lungo e doloroso testa a testa tra Amsterdam e Milano. Molte aziende stanno seguendo l’esempio dell’agenzia europea e hanno già lasciato il Tamigi. E guardando lo skyline viene da chiedersi se fra un anno i loghi sui tetti dei giganteschi grattacieli della nuova City resteranno al proprio posto. Malaguti è convinto che poco o nulla cambierà per la finanza. “Londra è cambiata rispetto a quando sono arrivato nel 2005, ed è molto meno attraente per i ragazzi che vogliono venire a vivere e lavorare qui. Il paese è diventato più insulare, per così dire. Ma continuerà a restare un hub finanziario globale”.
Socraticamente, l’unica sicurezza è che di certezze non ce ne sono. I voti di Westminster dei giorni scorsi hanno scongiurato un no-deal, la temuta uscita senza accordo, e dato incarico al governo May di chiedere una proroga a Bruxelles. Che potrebbe anche concederla: ma a patto, pare, che il Regno Unito elegga i propri rappresentanti in seno all’Unione nelle elezioni di maggio.
A quel punto, la telenovela si allungherebbe di un nuovo, estenuante capitolo. Dopo tre anni, il pubblico comincia ad annoiarsi. E il ricordo di quella che era la Gran Bretagna, con il suo proverbiale understatement, a sbiadire.