Il premier Boris Johnson perde la maggioranza in Parlamento. E mentre la sterlina scende, le aziende spostano gli headquarters sul continente
Trecentoventotto a trecentouno: Westminster si è espresso martedì sera dando via libera a una mozione che autorizza il parlamento britannico ad approvare una legge per impedire l’uscita dalla UE senza accordi. Sembrano formule da Prima Repubblica, invece si tratta di Londra. Benvenuti nel Regno Unito versione 2019.
Prendere il controllo della crisi su Brexit e impedire un no-deal. La sconfitta di Boris Johnson al primo voto parlamentare da quando è alla guida del governo coincide anche con la perdita della maggioranza in aula dovuta al passaggio di Philip Lee ai liberaldemocratici, all’opposizione. La ribellione ha scatenato la reazione furiosa del premier, che ha espulso, come promesso, i traditori dal partito conservatore. Cosa accadrà ora? Difficile dirlo. Potrebbero esserci le elezioni; ma non è detto che si torni alle urne, dato che per farlo serve l’accordo di due terzi del Parlamento, e da martedì non c’è neanche una maggioranza.
Una crisi senza fine cominciata nel 2016
Ma cerchiamo di capire qualcosa di più di questa crisi senza fine.
L’ex sindaco di Londra si insediò meno di due mesi fa al numero 10 di Downing Street con la promessa di risolvere l’impasse in cui si era impantanata Theresa May, il cui accordo con Bruxelles, negoziato nel corso di due anni, fu bocciato per tre volte dall’aula.
Il platinato ex corrispondente dalla capitale belga, noto, anche da giornalista, per una certa tendenza all’esagerazione (quando non all’invenzione) promise soluzioni in tempi brevi a un uditorio stanco di dibattiti. Il classico uomo solo al comando.
Probabilmente qualche delegato starà rimpiangendo il voto che lo portò a prendere il controllo prima del partito conservatore e poi, conseguentemente, del governo, in un percorso che non ha previsto il passaggio dalle urne. Un paragone italiano può essere con la parabola che portò a Palazzo Chigi Matteo Renzi.
Conta il risultato, prometteva Johnson, pochi fronzoli. La tattica? Un misto di decisionismo e atti al limite del regolamento. Come la chiusura del Parlamento proprio a ridosso della probabile uscita, prevista per il 31 ottobre. Il senso della mossa è stato impedire ai deputati di sabotare le spericolate manovre del premier. Manovre all-in, come si dice nel poker: si vince o si perde tutto.
Un atteggiamento spavaldo che avrebbe dovuto servire per negoziare sconti e concessioni da Bruxelles. Ma i rischi, se il bluff non riuscisse, sono alti. Il perché di tanto timore è presto detto.
Al di là della propaganda, analisi e studi, anche governativi, hanno messo in luce le conseguenze nefaste di un’uscita no-deal: anni di recessione, difficoltà di approvvigionamento, almeno per i primi mesi, persino di beni essenziali come farmaci, mobilità internazionale ridotta, per citarne alcuni. E tutto da un giorno all’altro.
Cosa accade ora?
Le elezioni sono quello che vuole Johnson; ma chi si oppone alla sua idea di no-deal farà di tutto per dilatare i tempi e impedirgli di arrivare al non-accordo in maniera trasversale proprio convocando una consultazione. Questa, infatti, si sovrapporrebbe nei tempi alle ultime finestre lasciate aperte dalla UE.
Cosa fa l’Unione Europea?
Sta alla finestra, per il momento. Bruxelles non sembra disposta a trattare ulteriormente. Il testo resta quello negoziato con la May e bocciato nei mesi scorsi da Westminster. Nulla è cambiato per i Ventisette.
Ma quali sono le conseguenze della Brexit in termini economici?
La prima, di questi giorni, è la caduta della sterlina a livelli che non toccava dal 2016.
Ma non solo. L’incertezza non aiuta l’economia. Gli investimenti diretti esteri sono passati dai 216 miliardi di euro nel 2016 a 92 nel giro di tre anni, e molte multinazionali hanno deciso di spostare gli headquarters sul suolo europeo per non rischiare. In pole position ci sono Amsterdam e Parigi, che hanno incominciato da tempo una intensa attività di lobbying e di pressione sui ceo delle maggiori aziende oggi con sede a Londra per vantare le meraviglie di Olanda e Francia.
Da luglio 2016, vacanze e merci importate sono diventate più costose per i britannici. Da segnalare, però, anche un effetto di segno contrario: le esportazioni britanniche sono diventate meno care.
E l’immobiliare?
Il mercato immobiliare è sceso. Dopo essere cresciuto del 66% in termini di prezzi dal 2010 al 2016, negli ultimi tre anni ha frenato. Ma non è chiaro se si tratti di una flessione ciclica o legata direttamente alla Brexit.
Quello che è certo, per usare un gioco di parole, è che non ci sono certezze. Un assunto un tempo impensabile in quello che era il regno della prevedibilità, dove si gira con l’ombrello anche quando c’è il sole perché, non si sa mai, potrebbe piovere. Un’epoca, forse, giunta al tramonto.