Il mondo intero si trova a fronteggiare il Sars-Cov-2 perché non lo si è saputo identificare e fermare in tempo. Accorgersi precocemente dei prossimi “spillover” dei virus – dagli animali verso di noi – può impedire che accada ancora
Ci sono eventi per i quali non possiamo prevedere esattamente né quando né dove avverranno, ma che sappiamo ripresentarsi con una certa frequenza attraverso i decenni e i secoli. Avvenimenti, a volte ostili alla specie umana, che la scienza ha studiato abbastanza bene da permettere oggi di attivare strategie e contromisure sufficienti ad arginarne gli effetti. Se parlassimo di terremoti, sarebbe fin troppo facile suggerire di costruire solo edifici antisismici, soprattutto nelle zone ad alto rischio in corrispondenza delle faglie attive. Come sappiamo, è più facile a dirsi che a farsi. Se invece parliamo di pandemie, a essere complicata non è solo la realizzazione pratica dei metodi di prevenzione, ma pure la scelta stessa di come agire.
Alla domanda su che cosa si stia già facendo per anticipare gli eventi, la risposta in due parole potrebbe essere un impietoso “non abbastanza”, dato il dilagare della Covid-19 in molti Paesi del mondo. Entrando nel merito della questione, però, ci sono molti modi di affrontare il problema.
Come prepararsi per la prossima pandemia
Uno, che è quello più chiacchierato negli ultimi mesi nonché l’unico ora possibile per Sars-Cov-2, consiste nella preparazione da parte dei sistemi sanitari e dei governi nazionali. Strutture ospedaliere attrezzate, personale sanitario in numero sufficiente, ricerca farmacologica ben finanziata, dispositivi di protezione a volontà e strategie 3T di test, tracciamento e trattamento: su questo si sta lavorando a livello globale, e in particolare in Europa in vista della temuta seconda ondata, che potrebbe arrivare nei prossimi mesi. Un tema su cui il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono pronunciati pochi giorni fa, notando un certo lassismo ed esortando l’Unione Europea ad attrezzarsi al meglio per evitare di ripetere di nuovo gli errori commessi.
Andare all’origine
C’è però un secondo modo di affrontare il rischio sanitario, ossia tentare di fermare la diffusione di un nuovo patogeno prima che questo infetti una massa critica di persone, determinando poi quell’effetto a catena così difficile da arrestare in un mondo globalizzato. Vale a dire, dunque, di acquisire la capacità di riconoscere e identificare un nuovo virus non appena passa da una qualsiasi specie animale alla nostra. Un processo, detto salto interspecifico o in inglese spillover, che sta alla base di molte malattie tristemente famose, dall’Aids all’Ebola, dalla Sars all’influenza aviaria, senza scordare ovviamente la Covid-19. E se non possiamo biologicamente impedire che un virus zompi da una specie all’altra, gli scienziati hanno evidenziato almeno tre possibili strategie per provare a evitare l’insorgenza di nuove pandemie. Con un tratto in comune: provare a giocare d’anticipo sul prossimo salto.
Le strategie per evitare nuove pandemie
Una prima strategia, che è anche quella relativamente più semplice da applicare, consiste nel ridurre tutte le attività umane che comportano contatti non igienici con specie selvatiche. Si è parlato tantissimo dei mercati di animali vivi, ma lo stesso si può dire di parecchie forme di caccia illegale, di certe abitudini alimentari tradizionali e di una serie di attività che portano le persone in aree storicamente non frequentate, come quando si diboscano le foreste o si bonificano terreni per ricavarne nuove aree agricole. In tutti questi casi spesso la biosicurezza è completamente trascurata, tanto che la frequenza degli spillover tende a essere più elevata proprio laddove l’uomo strappa terre ad altri animali per i propri fini.
La tattica numero due è una variante della prima, ma si concentra direttamente sull’atterraggio del salto di specie più che sul tentare di impedire il balzo. Vale a dire, si punta sull’intensificare la sorveglianza sulle persone che hanno contatti con la fauna selvatica, proprio con lo scopo di indentificare fin dal vero paziente zero gli eventi di spillover. Tra gli animali più predisposti a essere portatori di nuovi virus ci sono in particolare i roditori, i pipistrelli e gli uccelli, e chi ci lavora a contatto dovrebbe essere sottoposto ad attente e continue verifiche.
E infine, ma non per importanza, una possibilità ulteriore consiste nello studiare ciò che accade nella fauna selvatica indipendentemente dai contatti umani. Analizzare i patogeni che gli animali trasportano e la loro evoluzione può essere un modo per far emergere un potenziale pericolo prima ancora che questo si concretizzi in un salto di specie. Con l’accortezza, però, che gli scienziati incaricati di questo lavoro non diventino poi le prime vittime dello spillover stesso.
Naturalmente nessuna di queste strategie può offrire garanzie di successo, e il loro utilizzo in sovrapposizione è di certo più efficace che prese singolarmente. Ed è pur vero che l’adozione di buone abitudini e l’intensificazione dei controlli sono azioni più che doverose per provare – per quanto possibile – a impedire nuovi outbreak pandemici.
Dalla teoria alla pratica
Se possiamo scommettere che nel post Covid-19 le proposte si moltiplicheranno – anche sotto la spinta economica del cercare di impedire ulteriori disastri finanziari – già prima dell’arrivo del Sars-Cov-2 esistevano iniziative interessanti. Tra le più famose c’è la startup Metabiota, il cui core business è rappresentato da un grande catalogo delle malattie infettive, che include anche una mappa (aggiornata di continuo) di oltre un centinaio di diversi patogeni, con informazioni sul profilo genetico, sulla diffusione e sulla presenza di eventuali focolai. Metabiota è stata tra i primi ad accorgersi del nuovo coronavirus, e la sua tecnologia già nel 2014 (quando si chiamava Global Viral Forecasting Initiative) aveva dato una mano contro Ebola. Ai dati raccolti si combinano poi le simulazioni, fatte a milioni per coprire tutti i possibili scenari e fornire ai propri clienti – governi, aziende, sistemi sanitari, università,… – stime attendibili di dove potrebbero originarsi focolai.
Diverso come impostazione, ma non negli obiettivi, è il lavoro della EcoHealth Alliance, che si occupa di malattie infettive emergenti e si basa su modelli predittivi. In pratica, le valutazioni vengono fatte sia tenendo conto delle diverse specie animali e delle loro caratteristiche, sia delle modalità con cui si possono stabilire contatti con gli esseri umani, anche in base alla densità abitativa e alle abitudini locali. Il risultato sono delle complesse mappe del rischio di spillover, che indentificano come aree più probabili per l’emergere di nuove malattie l’India, la Cina, la costa est degli Stati Uniti e l’Europa.
Una grande sfida
La sfida resta comunque enorme. Basta pensare che, se il Sars-Cov-2 è geneticamente simile al virus della Sars, di altre varianti molto prossime ne sono già state identificate almeno 50. Non tutte davvero pericolose, ad esempio perché incapaci di trasmettersi da persona a persona o di determinare una malattia significativa, ma a priori è difficile fare distinzioni. Tra le grandi imprese da affrontare c’è l’educazione delle comunità locali che vivono vicino alle specie portatrici di virus potenzialmente pericolosi, ma anche il convincere governi e investitori dell’importanza di questa azione preventiva, che per essere svolta in modo sistematico e in sicurezza richiede finanziamenti mensili dell’ordine del milione di dollari.
Molte delle attività sul campo sono state sospese con l’arrivo della pandemia, perché i ricercatori stessi hanno preferito abbandonare temporaneamente le minacce ipotetiche per dedicare tutte le loro energie a una minaccia decisamente reale. Ma con il ritorno alla nuova normalità, promettono, al monitoraggio dei nuovi virus affiancheranno anche le ricerche per capire da quale animale, dove e come – esattamente – il Sars-Cov-2 sia arrivato a infettare la nostra specie.